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AD APOLLO PIZIO 35

scrisse sulle cause od origini, tutto addirittura un poema, gli Aitia, che, almeno a giudicarne dai saggi recuperati qualche anno fa, erano la piú soporifera cosa del mondo.

Di carattere alessandrino sono poi anche la descrizione del rito di Posídone ad Onchesto, e il ricordo preciso, quasi epigrafico, dei nomi dei due fondatori del tempio, Trofonio e Agamede; i quali debbono avere esistenza storica piú concreta di quanto lascino intravvedere le leggende.

Alessandrina, ma di buon alessandrinismo, è poi qualche immagine plastica, non già di prima mano, come le omeriche, bensí ispirata ad altre opere d’arte.

Tale, nella introduzione, la radiosa figura di Apollo, che

oltre procede a gran passi: gli raggia un fulgore d’intorno,
sprizzano raggi abbaglianti dai piè, dalla tunica bella;

che non può non ricordare il famoso Apollo citaredo della sala delle Muse in Vaticano, che è del sec. IV.

Tali le Càriti, l’Ore, Ebe, Armonia, Afrodite, meravigliose figure femminili, che

     danzano, l’una con l’altra stringendosi al carpo la mano,

e che fanno pensare alle pitture ceramiche e ai bassorilievi in cui ricorre un identico motivo. E, per quanto possa valere una impressione personale, ci sembrerà proprio che il verso dell’inno sia una traduzione verbale delle opere figurate, e non queste di quello.

Ed altri minori indizi di alessandrinismo si possono cogliere, massime nella lettura del testo. Mi limito ad accennare il già