Pagina:Opere varie (Manzoni).djvu/366

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La rappresentazione scenica poi accresce non poco l’efficacia della parola, aggiungendoci l’uomo e l’azione. E qui fa al nostro proposito l’osservare (cosa, del resto, degna d’osservazione anche per sé) come questi oggetti presenti al senso, non solo non disturbino, con l’impressione della loro realtà, l’effetto della verosimiglianza pura voluto dall’arte, ma lo secondino e lo rinforzino. La ragione è che tali realtà non operano che come meri istrumenti dell’azione verosimile, e come tali le prende lo spettatore. Infatti, se un attore, nell’atto della rappresentazione, fa o dice qualche cosa che si riferisca alla sua persona reale o alle circostanze di essa, offende lo spettatore, trasportandolo alla considerazione di quella realtà. E cosa vuol dire questo avvedersene ed esserne offesi, se non che prima se ne faceva astrazione? E di qui viene che quanto più un attore par che faccia naturalmente, e quanto più commove, tanto più concentra la mente dello spettatore nel mero verosimile; quanto più gli rende presente l’uomo della favola, l’uomo o colpito dalla sventura, o accecato dalla passione, o minacciato da un pericolo ignoto a lui, tanto più gli sottrae, per dir così, e gli fa scomparir davanti la sua propria e reale personalità. Ed è la massima lode che si dia a un attore: era ciò che si voleva dire quando si diceva, per esempio, che Garrick era Hamlet, che Lekain era Orosmane. Non è la realtà presente, ma ordinata e subordinata al verosimile, quella che ne possa disturbar l’effetto; è la realtà storica, indipendente dal verosimile, e dalla quale il verosimile deve dipendere; la realtà storica, conosciuta o anche semplicemente conoscibile, e assente bensì dal senso, ma compenetrata col soggetto.

Il vantaggio essenziale della forma, quest’altro vantaggio secondario, ma considerabile, e altri ancora più secondari, che non importa qui di rammentare, fanno che la tragedia possa, meglio del poema epico, schermirsi dalla storia.

Ma ho detto schermirsi, e aggiungo: cedendo sempre qualcosa, perché, anche da fuori, la storia riesce a farsi sentire, e a far valere le sue pretensioni. La relazione estrinseca, ma essenziale, che la tragedia storica ha con essa; e l’obbligo che ne nasce di trovare de’ verosimili che siano tali relativamente al soggetto preso dalla storia, doveva produrre, e ha prodotti nella tragedia i medesimi inconvenienti, che nell’epopea: meno frequenti e meno sensibili, è vero; ma ugualmente crescenti con l’andar del tempo. E a metterli in chiaro, nulla potrebbe servir meglio degli argomenti ai quali è dovuto ricorrere un gran tragico, per veder di levarli.

«La questione» dice Pietro Corneille, «se sia lecito far de’ cambiamenti ai soggetti presi o dalla storia o dalla favola, pare decisa in termini abbastanza formali da Aristotele, quando dice che non si devono cambiare i soggetti ricevuti, e che Clitennestra dev’essere uccisa da Oreste, e Erifile da Alcmeone. Questa sentenza però può ammettere qualche distinzione e qualche temperamento. È certo che le circostanze, o, se par meglio, i mezzi d’arrivare ai fatto rimangono in nostro arbitrio: la storia spesso non ce li dà, o ne dà così poco, che è necessario di supplir con dell’altro, per render compito il poema, e si può anche presumere con qualche ap-

    il Sosia di Plauto, a fronte di Mercurio: senonchè, ne’ casi di cui parliamo, è il mortale che la vince. Praefulgebant eo ipso quod non visebantur. E che vuoi dir questo? Che la storia può volersi cacciare, e cacciarsi in effetto anche nel campo più esclusivamente proprio della poesia, quando la poesia s’è fatta storica. La storia registra molti, ma molti più fatti, che detti; e quindi è motto, molto più facile l’evitarla, facendo parlare le persone storiche, che facendole operare. Ma questi pochi detti hanno la stessa ragione de’ fatti per volere il loro posto, e la stessa forza per prenderlo.