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ORAZIONE TERZA DI M. BUONACCORSO DA MONTEMAGNO

Che recitò detto Messer Stefano Porcari all’entrata de’ Signori novelli di Firenze.

Se mai alcuna volta è stato smarrito il mio piccolo ingegno; se mai fu sopito il vigore della usata orazione, in questo luogo, Illustri Signori miei, amplissimi cittadini, ed invittissimo Popolo Fiorentino, sarebbe di bisogno al flagrantissimo volere mio essere concesso altissimo intelletto e profondissima memoria; veggendomi davanti agli occhi tanta maestà, tanto conspetto d’uomini probatissimi, tanta corona di popolo giocondissimo, il cui iudicio (1), quale, quantunque audace e prontissimo oratore non commoverebbe? La cui matura gravità quale bene interpetrante lingua non tenga a freno? Il cui acutissimo riguardo quale audacia di parlare non faccia cadere? Ma contra la graziosa benignità non chiami; la serena fronte non induca, e la umanità non faccia ardito? In queste conflittazioni percossa la mente, più ha in sè multiplicata l’audacia, che detrattasi la potenzia per timore, che vincendo l’amore, la fede, la speranza avuta verso voi, i trepidi e rimoranti spiriti sono riscaldati. Quale sarebbe quello uomo ottuso e insensato, quale quella vaga e dispersa immaginazione, quale quello ferreo e duro cuore, che ripetendo in sè la umanissima benignità, la cordiale dilezione, la affluentissima grazia verso me mostrata, lo insigne onore e potente Magistrato, del quale m’ave-

(1) JUDICIO V. L. e A. Giudicio; e così appresso.