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nelle bocche di un molino. Involontariamente tornò ad ascoltare. Così nell’ombra contemplava ancora quelle due pareti umane, bianche e rigirantisi sopra sè stesse, colle teste che trabalzavano cadavericamente; vedeva certi sorrisi tormentati, certe occhiate livide, certi denti balenanti dalle bocche spalancate, come gli era parso di osservare dianzi. Ma essi turbinavano sempre; se li sentiva intorno, quasi al di dentro, colla vertigine di un vortice. Poi un urlo immenso, lacerante, lo colpì.
Tornò a spiare dal vetro. La ronda era finita, tutti giacevano in un alto mucchio bianco, palpitante e semivivo, come sepolti sotto la neve negli ultimi conati dell’agonia. Le lampade sacre agitavano leggermente gli azzurri lucignoli come stelle tremolanti nel cielo lontano; dalla tinozza il vapore dell’acqua s’alzava in una nuvola sempre più densa, ondeggiante nell’aria al pari di un incenso.
Loris tentò di aprire l’uscio per accostarsi a quell’ammasso di caduti, che subitamente si rialzarono come sferzati da uno scudiscio invisibile, mettendosi a saltare soli, dimenandosi nelle più incredibili contorsioni. Dopo la preparazione collettiva di quella ridda cominciava il tormento singolo dell’attesa in ognuno, l’estremo sforzo verso l’estasi col sommovimento di tutte le fibre. Qualcuno preso da un tremito convulsivo sembrava oscillare come una canna, colle ginocchia