Pagina:Oriani - Il nemico.djvu/224

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l’ombra faceva lago; la cupola dorata della grande poltrona vi balenava incertamente come un faro lontanissimo fra tenebre notturne.

Per ingannare il tempo girò tutto il teatro, discese nella platea, entrò nelle sale di ritrovo, salì sul palcoscenico, e si mise dinanzi al tendone calato, guardando nella platea colle braccia incrociate come un oratore, che sta per incominciare un discorso. Avrebbe voluto parlare. Le poltrone vuote si allineavano sotto di lui, coi bracci aperti, attendendo. Palchi e balconi indietreggiavano dai parapetti, sui quali il velluto rosso, a certi punti illuminati, appariva come una macchia di sangue. Una parola sola sarebbe bastata a sbigottire tutto quel silenzio.

Tornò a girellare.

Brani di opera ascoltati altrove gli tornavano così vivamente nella memoria, che si sorprese a canticchiare come un ragazzo. Poi gli venne il capriccio di entrare in qualcuno di quei palchi chiusi, quasi per cercarvi le traccie degli sconosciuti, che vi tornerebbero. Quante belle signore vi sarebbero quella sera? Esse non erano che un vizio di più nella prepotenza dei padroni, una decorazione intermittente fra le decorazioni del teatro. Era tempo, era tempo. L’orgoglio satanico di quell’attentato gli riavvampò nella mente. Che cosa erano al confronto gli eroismi di guerra vantati nei libri? Il coraggio dev’essere intellettuale per essere umano. Nessun uomo si batte