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mitza fino a quella dell’Aquila nelle vicinanze di Borcea, esse sono sparse per tuttta l’estensione della sconfinata pianura, come sentinelle mute e curve dagli anni che pesan loro sulle spalle. Alle loro falde nidificano gli avvoltoi dalle larghe penne nere, o quelli grigi il cui collo, sempre teso verso la preda, sorge pelato e ripugnante dai loro corpi spellati e nudi. È terribile vedere come questi uccellacci si slancino verso le carogne e si rimpinzino di carne fetida, quando in quelle solitudini cade per malattia qualche capo dell’armento.

Appena sorto il sole, quando la ruggiada se ne sta ancora appesa ai fili d’erba, il carro si è messo in cammino partendo dal rifugio notturno, e solo quando il sole è allo zenit, giunge al punto di convegno dei cacciatori. Spesso questo punto è una croce di pietra pencolante, ovvero un pozzo a pertica, cioè una buca profonda da cui si attinge l’acqua con un otre. Bisogna arrivare a Paicu all’altra estremità del Baragàn, o a Cornatzèle, nell’interno più profondo, per trovare una minuscola macchia di antiche betulle, all’ombra delle quali si riparan le greggi, mentre tra i rami schiamazzano le cornacchie. In qualsiasi altro punto del Baragan il cacciatore non trova altro riparo dove far colazione o dormire, che all’ombra del suo carro. Ma quanto liete sono queste tappe di un’ora o due, in cui tutti raccontano le loro gesta vere o immaginarie, dicendovi come sono stati ingannati dagli uccelli furbi, che, dopo averli fatti stancare inseguendoli di cespuglio in cespuglio, sono scomparsi come per incanto in un volo più lungo!

Dopo il riposo, la caccia ricomincia con piacere, sempre nuovo. Quando il sole comincia a declinare verso il tramonto, quando il crepuscolo stende a poco a poco i suoi veli sull’immensa distesa della steppa, l’attrattiva misteriosa della solitudine si fa sentire sempre più viva nell’animo del cacciatore. Un sussurro notturno s’innalza su dalla terra; dal soffio della brezza che fa frusciar l’erbe, dallo strider dei grilli, da migliaia e migliaia di suoni leggeri, indistinti, par nascere come un sospiro che parta dal seno stanco della natura. Allora, nelle regioni più alte dell’etra passan cantando «doine» lunghe file di gru, nastri serpeggianti di codesti uccelli migratori, in cui Dante ha intravisto la graziosa immagine dello stuolo degli spiriti che han peccato d’amore:

E come i gru van cantando lor lai,
nel freddo tempo in schiera larga e piena,
così vid’io venir traendo guai,
ombre portate dalla detta briga.

Ma ecco che, ad uno ad uno i carri giungono alla «tanca» o all’ovile dove han deciso di passar la notte. Una casupola coperta di paglia, una schiera di cani da guardia irsuti che abbaiano a più non posso: ecco il rifugio e la guardia del corpo che può offrire il pastore di Radana o quello di Rénciu. Ivi i cacciatori cercano di apparecchiarsi il letto e la cena nel caso che non abbian pensato a portar con loro nel carro coperte e vettovaglie. Appena però sul gradino della stufa (1) o accanto al focolare ciascuno si è trovato il giaciglio ed ha racimolato qualcosa da metter nello stomaco, le lingue si sciolgono e comincia un fuoco fitto di motti, di risa, di aned-

  1. Le stufe dei contadini rumeni hanno di fianco una specie di largo gradino, su cui si dorme.