Pagina:Panzini - Diario sentimentale della guerra, 1923.djvu/353

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nulla. Potrei possedere milioni, che non perdo nulla. Nella vita, qui, è così: l’uomo ha bisogno di sentire una realtà: l’oro, i diamanti, le case, i poderi, gli àbiti. Se no, non vive.

Ma lassù, avendo davanti la morte, è un’altra vita! I morti in campo? Non fanno pietà. Non si sente più la pietà. Si patisce, ma non si soffre, perchè di più non si potrebbe soffrire. Quando, scendendo dalle trincee, ho visto un cuscino bianco, mi ha abbagliato come le poppe di una donna giovane. L’ideale delle trincee: avere una stanza chiusa, anche senza niente. In un àngolo accendo un po’ di stecchi, e scaldo una minestra di lardo. Nella trincea, il soldato (ve ne sono di anziani) pensa al grande letto, e alla moglie che deve aggirarsi nel grande letto. Racconta e ride. Il soldato dice una sola parola: «Disgrazia!». La guerra, disgrazia! Uno è ferito, disgrazia! Uno muore, disgrazia. Basta! I soldati sono mendicanti che vanno elemosinando un po’ di calore. Nelle case campestri presso Cortina d’Ampezzo, sono andato ad assistere al rosario che dicevano per un morto di là, dei loro, sul Col di Lana. Essi, gli ampezzini, dicono i nostri , cioè i soldati dell’Austria, che combàttono contro di noi. Tutti austrìaci, a Cortina: vecchi, donne, bambini! Vecchi usi, vecchie preghiere: anche il pane dei mor-