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62 la morte di un re


Piano piano, me gli accostai. — Povero falco, — dissi, — vuoi la libertà? — e feci per lisciarlo.

Fu come prima, un istante: si voltò, si rabbuffò, le ali si spiegarono, le cortine delle pupille si alzarono e folgorarono le pupille. Questa volta la mia mano portava, oltre ad un’altra copia di solchi, uno strappo sanguinoso. Mi aveva ferito col becco, in modo che mi fece subito conoscere senza aiuto di storia naturale quale differenza interceda tra il becco degli uccelli di rapina e gli altri suoi pennuti fratelli. La notte dormii con la mano fasciata, e al mattino corsi su in soffitta a vedere che ne fosse del falco.

Il falco non aveva mangiato; il cuore e il fegato imputridivano ai suoi piedi.

— Tu vuoi morire, bestiuola mia, se non mangi, — gli dissi e ogni mia esortazione cadde a vuoto. Le palpebre gli si chiudevano con una non so quale solennità e pareva ed era immobile. Molta tristezza vinse la mia piccola anima infantile e quel dì non giocai.

Andai nell’orto a trovare dei lombrichi i quali strisciavano i loro umili anelli sulla terra; presi larve di insetti, bachi, piccole lucertole, che godevano sul muricciuolo il dolce sole, e fatto di questi innocenti animaluzzi un cibreo che giudicai appetitoso, lo offersi al mio falco. Non mangiò ne meno allora.

Al mattino seguente era ancora lì, rigido, fermo. Ne ebbi pietà e gli dissi: — Vedi che ti voglio bene e solo desidero che tu ti faccia buono e che noi diventiamo amici!

Ma poi vedendo che non dava alcun segno, e meravigliandomi come potesse vivere senza cibo, ne ebbi alquanto sgomento.