Pagina:Parini, Giuseppe – Prose, Vol. I, 1913 – BEIC 1891614.djvu/262

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nelle prediche e nelle scritture usavasi tuttavia; contuttoché il latino d’allora, anziché risvegliarne oggi idea veruna di nobiltá, d’eleganza e di buongusto, soglia piuttosto moverci a riso. Non osarono pertanto que’ primi scrittori toscani servirsi del loro volgare per trattare o scrivere le cose credute piú gravi ed importanti, figurandosi eglino che la lingua del popolo non fosse proporzionata alla severitá di certi argomenti ; ma si applicarono a scrivere in essa cose piacevoli e degne della popolare curiositá, e poesie massimamente, e queste d’ordinario amorose, come soggetti che sono piú d’ogn’altro alla portata comune, e i quali ci era piú interesse di trattare in una lingua piana ed intelligibile alle giovani persone. Di poi, veggendosi che tali cose in tale lingua scritte piacevano, sia per la novitá, sia per le cose stesse, vi si arrischiò qualche cosa di piú, e cominciarono i toscani a scrivere nella volgar lingua le cronache, cioè le semplici ed estese narrazioni de’ fatti successi nella lor patria. I cherici anch’essi s’avvidero che meglio sarebbono stati intesi da’ laici ed idioti, se nel loro volgare avessero loro parlato dal pulpito; e cosí, col proceder del tempo, si diedero a farlo essi pure. Questi esempi furono di stimolo ad altri, perché stendessero nella volgar lingua e da altre vi traducessero, non giá trattati di divinitá ed altre scienze elevate, ma cose pertinenti massimamente a comodo e ad ammaestramento delle persone illiterate; e in simil guisa si andò via via in Firenze ed altri luoghi della Toscana facendo ogni giorno qualche passo piú oltre. Ma queste scritture, d’un genere assai mediocre, non sarebbono per avventura uscite di Toscana, né perciò quella lingua sarebbe uscita dagli stretti confini ov’era nata, se tre sublimi ingegni non sorgevano, che, in pochissimo tempo, si grandi ali le diedero, che fuori la spinsero dal suo nido, e la fecero volare per tutta l’Italia con felicissimi augúri; e costor furono Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, tutti e tre fiorentini. Dante, uomo d’ingegno elevato, di grande e libera fantasia, assuefatto fino dalla prima giovinezza ad alternar fra l’arme e fra gli studi, in mezzo alle fazioni ed alle turbolenze della sua