Pagina:Parini, Giuseppe – Prose, Vol. I, 1913 – BEIC 1891614.djvu/51

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trovi assai volte conceduto indistintamente il medesimo valore ad ambedue queste voci «donna» e «femmina». Per riguardo poi al secondo, voi stesso mostrate di diffidare che un paragone fatto a cotesta foggia, cioè di comparare le nostre donne volgari colle signore fiorentine, non sia per sembrare ridicoloso: conciossiacché, faccendosi le comparazioni, perché, dal misurare l’una cosa coll’altra, ne venga a ferirci l’intelletto una differenza per anco sconosciuta, o perché, trovandole ambedue simili, non si possa affermare dell’una quel che dell’altra non si avvera, ognun vede che sarebbe molto scipita cosa, non che soverchia, il voler paragonare le femmine milanesi colle donne toscane, o, per dir piú chiaramente, le nostre donne della plebe colle civili e colle nobili di Firenze, essendo per lo piú grandissima e sempre chiara ad ognuno la distanza che passa tra il popolo e la nobiltá. Che dite ora voi, o mio stimatissimo maestro (ch’io mi glorierò pur sempre di chiamarvi con questo nome), che dite? Ho io fin a quest’ora cosí bene rischiarata e partita la materia, che ne possa salire a galla la veritá? Io me ne confido certamente, e parmi di avere assai chiaro dimostrato che, si per la tessitura come per tutte quante le circostanze del vostro discorso, voi non possiate negare di avere scritto generalmente delle donne milanesi colá dove siete rimproverato di averle biasimate, siccome colá generalmente scriveste dove ben meritatamente lodaste le fiorentine. Ma via, vedete quanto io sia cortese e largo con esso voi! Usciamo per poco degli argomenti sinora addotti; non giá perché io voglia ch’essi perdano o scemino punto del lor valore (e questo ricordatecelo bene), ma perché gli argomenti sogliono spesse volte comparire odiosi, come quelli che costringono e violentano l’animo e la volontá. Io vi voglio concedere, cosi per via di discorso, che, quantunque lo scrittore, per quanta diligenza e cautela egli usi, non ne usa mai di soverchio per togliere ogni confusione ed equivoco, allor ch’ei tratta di cose odiose e che sieno in disfavore o in biasimo di qualche suggetto; io vi voglio, dissi, concedere che voi, allorché favellaste