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16 maggio.

Hai sfogliato Lavorare stanca e ti ha avvilito: composizione larga, assenza di ogni momento intenso che giustificherebbe la «poesia». Le famose immagini che sarebbero la struttura stessa fantastica del racconto non le hai vedute: valeva la pena spenderci dai 24 anni ai 30? Al tuo posto, io mi vergognerei.

24 maggio.

È bello quando un giovane — diciotto, vent’anni — si ferma a contemplare il suo tumulto e cerca di cogliere la realtà e stringe i pugni. Ma meno bello è farlo a trenta come se niente fosse successo. E non ti viene freddo a pensare che lo farai a quaranta, e poi ancora?

26 maggio.

La ragione perché gli unici filoni ricchi di materia che hai trovato sono gli anni dai sei ai quindici, da cui ti giungono storie e poesie mature e saporite — è questa: in quegli anni vivevi nel mondo, vitellescamente e ottusamente ma nel mondo. Il tuo io interessava sí tutti i tuoi contatti pratici col mondo, ma lasciava intatta tutta la corrente di simpatia tra te e le cose.

Dopo i quindici il tuo io è uscito dalla brutalità pratica, e ha cominciato a erigersi anche in un mondo ch’era stato sin allora della contemplazione pura. E ogni cosa si è fatta sterile e torbida e voluta.

Il problema di uscire dall’adolescenza trentenne in cui ti muovi, è questo: vedere i maneggi della virilità con lo stesso occhio pratico con cui il bambino vedeva i suoi, ma tuffarti con la stessa ingenuità nella corrente di simpatia per questo lurido mondo.

In fondo, l’unica ragione perché si pensa sempre al proprio io, è che col nostro io dobbiamo stare piú continuatamente che non con chiunque altro.