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1942 233

zione in quanto ognuno espone il suo caso al pubblico. La persona non scende mai a dialoghi con altre, ma è come è, statuaria, immutabile.

Le uccisioni avvengono fuori scena, e se ne sentono gli urli, le esortazioni, le parole. Giunge il messaggero e racconta i fatti. L’avvenimento si risolve in parola, in esposizione. Non dialogo: la tragedia non è dialogo ma esposizione a un pubblico ideale, il coro. Con esso si attua il vero dialogo.

[Di qui la povertà della tragedia classicista (francese, Alfieri) che conservando lo stile, l’assenza di fatti e l’esposizione della greca, manca del coro cioè del secondo personaggio che tiene testa a quello unico che è la somma delle altre persone].

18 ottobre.

In Eschilo il protagonista è immobile, statuario, di fronte al coro, e si muovono intorno a lui gli episodi (Supplici, Prometeo, Persiani, Sette a Tebe). Questa è probabilmente la situazione madre. Ricompare in Sofocle (Edipo a Colono) e in Euripide (Troiane, Ecuba).

L’ubris è il conoscere un oracolo e non tenerne conto. Ma è fato (oracolo) anche l’ubris. Ciò che deve essere sia. Il coro constata questo. (Ecco perché è il perenne interlocutore degli agonisti).

31 ottobre.

Tutte queste burle, questi tricks, queste witty inventions, che nel tragico sono agguati, vendette, imprese, sono la forma entro cui si agita la verità psicologica delle persone ma la superano, la incorniciano e sorreggono, in stilizzazione tra sociale e mitologica. Il wit insomma non è psicologia, è stile.