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utilizza e rialza tutta la vivacità del dialetto. Mentre, quando esiste una lingua letteraria, non si sente piú il bisogno di questo rialzo, in quanto pare che questa lingua abbia già dignità, e buona notte.

Ma, insomma, se ormai è fatta, è fatta. Ormai il dialetto è distinto dalla lingua, e non si può tornare indietro se non mascherandosi da strapaesani. Il problema è inventare (frequentativo da invenire) una nuova vivacità (leopardianamente naturalezza).

7 ottobre.

L’Enrico VI è uno dei piú raccontati e ricchi lavori di Shakespeare. La sua stessa triplicità gli toglie teatro e dà narrazione. È multicolore: le guerre in Francia, con avventure estere (la duchessa d’Auvergne, la Pucelle); gli intrighi e fazioni in casa, con tumulti (Cade); le guerre feroci con tradimenti e alti e bassi e fughe (foresta in Scozia). Ecco le tre parti. Possibile che sia il suo primo dramma? Ha già tutta la lingua tragica di Shakespeare, coi giudiziosi passaggi dalle volate retoriche alle saporose uscite popolari. Qui il wit si configura specialmente come immagine illuminatrice della narrazione. Abbonda di vivissime descrizioni di gesti e di casi, dove regna questo wit. Da notare che Shakespeare sapeva già benissimo usare il wit come botta e risposta, come ricamo fantasioso di dialogo. Qui al dialogo si sostituisce il wit descrittivo e narrativo. Le commedie contemporanee sono già teatro, mentre questa cronica è tutta racconto.

Le tre parti hanno ciascuna un eroe: Talbot, York, Warwick, il soldato eroico e semplice, il pretendente capace e perseverante, il soldato eroico e politico. Ma quel che conta è il formicolio, la molteplicità, la ricchezza di figure; non la verità psicologica dei singoli ma il mondo vitale ch’essi costituiscono insieme agli ambienti e alle immagini (di mare, di mestieri, di natura, di fauna).

8 ottobre.

Love’s labours lost è la piú bella commedia giovanile. Possibile che sia la prima? Vi regna la frenesia del linguaggio, battuta, con-