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30 1936


Cosí intesi, i creatori appaiono bene condizionati a quel lavoro di grandiosa e sottilissima abilità, astuzia, che si richiede a soddisfare il gioco di ponte tra racconto e poesia. Sono mirabili nel compromesso, l’arte tutta sociale e prudenziale dell’esperienza. Invece di derivare una grandezza dalla violenza del sentire, essi la derivano dall’arte del saper vivere. Questa base biografica è l’unica cosa che abbiano in comune i lirici e i creatori. Ma mentre per i lirici tutto si estingue in questa violenza, per essi, per i maestri, il saper vivere è un’arte che semplicemente giova a tornire il materiale umano, liberato a sé, ripulito, ultimato: posto a disposizione di tutti. Cosí essi scompaiono nell’opera, mentre i lirici vi si sfigurano.

28 febbraio.

C’è un parallelo tra questo mio anno e la considerazione della poesia. Come la sofferenza atroce non l’ho avuta nei grandi momenti (15 maggio, 15 luglio, 4 agosto, 3 febbraio), ma in certi lassi furtivi dei periodi intermedi; l’unità del poema non consiste nelle scene-madri, ma nella sottile corrispondenza di tutti gli attimi creativi. Vale a dire, l’unità non deve tanto alla costruzione grandiosa, all’ossatura identificabile della trama quanto all’abilità scherzosa dei piccoli contatti, delle riprese minute e quasi illusorie, alla trama dei ritorni insistenti sotto ogni diversità.

Che cosa soffro di lei? Il giorno che alzava il braccio sul corso asfaltato, il giorno che non venivano ad aprire e poi è comparsa con i capelli scossi, il giorno che parlava piano con lui sull’argine, le mille volte che mi ha fatto fretta. Ma questa non è piú estetica, sono lamenti. Volevo elencare i bei minuti ricordi, e non ricordo che spasimi.

Via, servono lo stesso. La mia storia di lei non è dunque fatta di grandi scene, ma di sottilissimi momenti interiori. Cosí un poema deve essere. È atroce questa sofferenza.

15 marzo.

Finito confino.