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dici «ne faccio a meno», e cosí ti ritrai davanti a ogni impegno di vita che t’impedisca il tuo lavoro. Un altro dice «non devo sverginarmi, nel dubbio che cosí la santità mi sia preclusa» e cosí, nel dubbio, vorrebbe fermare la storia. Un altro si lascia andare, gode ingenuamente, e cosí vede i suoi rapporti quotidiani. Chi si compiace di analizzare e svilire ogni cosa del sesso, fa lo stesso con la vita e nella vita: svilisce le cose perché le intende come orgasmi materiali ecc. Sciocchezza banale.

11 marzo.

Non analizzare, ma rappresentare. Ma in un modo tutto vivo secondo un’implicita analisi. Dare un’altra realtà, su cui potrebbe nascere nuova analisi, nuove norme, nuova ideologia.

È facile enunciare nuova analisi, nuove norme ecc. Difficile è farle nascere da un ritmo, un piglio di realtà coerente e complesso.

L’ideale dialettale è lo stesso in tutti i tempi. Il dialetto è sottostoria. Bisogna invece correre il rischio e scrivere in lingua, cioè entrare nella storia, cioè elaborare e scegliere un gusto, uno stile, una retorica, un pericolo. Nel dialetto non si sceglie — si è immediati, si parla d’istinto. In lingua si crea.

Beninteso il dialetto usato con fini letterari è un modo di far storia, è una scelta, un gusto ecc.

Importante il 27 marzo ’48. Si scambia sempre ciò che noi siamo con la verità. Qui è l’errore (?) storicistico, il relativismo idealistico. Si può cercare di giustificarlo dando importanza a ciò che dobbiamo essere secondo la ferrea necessità storica. È il materialismo dialettico. Qui se non altro si riconosce l’obbligo di conoscere a fondo la necessità in cui versiamo. Ma si esaurisce cosí tutta la realtà? Intanto si tende cosí a porre l’assoluto nell’avvenire, nella rivoluzione. Ma non esiste anche una profonda compiacenza del momento presente — hic et nunc? Lavorare stanca?