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358 1949


28 novembre.

Succede di notte, quando comincio a assopirmi. Ogni rumore — scricchiolio di legno, frastuono in strada, grido lontano e improvviso — mi risucchia come un gorgo, un repentino e ondeggiante gorgo, in cui mi crolla il cervello e crolla il mondo. Nell’attimo attendo il terremoto, il finimondo. È un residuo della guerra, delle bombe aeree? È una raggiunta consapevolezza della possibile fine universale? Esaurimento — è una parola — ma che cosa significa? È piacevole, un sussulto leggero come d’ubriachezza, e mi riprendo a denti stretti. Ma se un giorno non ce la faccio a riprendermi?

1° dicembre.

Passeggiando sul Lungo Po, davanti al Monte dei Cappuccini. Imbrunire nebbioso, le ville scompaiono, restano i dorsi scuri, irsuti dei colli, selvaggi, sfumati. A che serve questa bellezza — che cosa significa, almeno? Tornano in mente i pensieri sul selvaggio superstizioso (estate ’44), sull’irrealtà del selvaggio (20 luglio ’47), sul paesaggio magico (1° maggio ’48) — se ne conclude che il selvaggio non è nulla senza una concezione magica del mondo, senza la possibilità che esso influisca su noi in modi non razionali, non misurabili, non prevedibili. A che monta questo senso struggente del selvaggio, questa bellezza sobria e rude, questa commozione, se essa influisce su noi appunto soltanto come bellezza, come impressione? Non è tutto ciò un raffinamento civile? Il selvaggio per essere deve influire vitalmente anche sull’analfabeta, sul villano, sull’uomo economico, dev’essere potenza non bellezza.

Scoperto l’altra sera quanto mi abbia plasmato la lettura di Sun e The woman who rode away di Lawrence (’36-’37?).

3 dicembre.

La trovata di Graves (The common Asphodel) di allargare a sonetto retorico-descrittivo una poesia telegrafica di Cummings, per