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1936 41


28 aprile.

«Che al signore piacciano le cose chiare, mi sa bene per il suo buon gusto. Ma rifletta il signore che le cose chiare sono subito digerite e poi torna l’appetito. Molto meglio rodere nel difficile, arrabattarsi a trovare il pezzetto, far durare di piú la speranza insomma».

Perché prendersela tanto? Siamo ritornati al ’29. Composto poesie oziose, sofferto per l’incapacità di lavorare, solo e contrito in mezzo alla vita, vagabondo arrabbiato dello spettacolo pubblico. Che cosa manca? I sette anni trascorsi?

Ma via: ha mai contato la giovinezza nel mio mestiere? E se i sette anni non mancassero, fossero tutti finiti bene, cioè: composto poesie durature, trovato da lavorare con soddisfazione, accoppiato e riconoscente nella vita, accasato lieto dello spettacolo pubblico; se tutto fosse andato cosí, avrei qualcosa di piú? Sarebbe valsa la pena? Sarei seduto a questo tavolo con piú gioia?

E, se rispondessi che sarei lieto di essere legato, di avere dei doveri, non direi una cosa inutile, dato che di doveri uno ne ha sempre, purché voglia?

E allora, allora proprio soltanto lei rimpiango? Lei che mi ha fottuto? Ma, se tutto il resto è inalterato, che cosa rappresenta piú lei se non una banale delusione sentimentale?

Allegro giovanotto, non è nemmeno lecito sprofondarsi in un grande tracollo; non esiste il tracollo; siamo come prima, abbiamo bruciato sette anni, ci sono accadute delle amabilità; ricominciamo, ma senza urlare, e teniamo presente che non c’è ragione perché fra altri sette anni non rifacciamo lo stesso discorso. E poi ancora, e poi ancora. Ma chi ci ha detto che la vita fosse da godere? Ragazzo, abbiamo ancora le illusioni giovanili.

Ma, se è vero che a tutti càpiti cosí, come mai i vecchi non han tutti facce stravolte, indemoniate, macellate, spaccate, e sono invece cosí tranquilli?

L’unica cosa chiara è perché i morti si putrefacciano. Con tutto quel veleno nel corpo.