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23 novembre.

L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso — prigione, malattia, abitudine, stupidità — , si vorrebbe morire.

È per questo che quando una situazione dolorosa si riproduca identica — appaia identica — nulla ne vince l’orrore.

Il principio suddetto non è poi da viveur. Perché c’è piú abitudine nell’esperienza ad ogni costo (cfr. il brutto «viaggiare ad ogni costo»), che nella normale rotaia accettata doverosamente e vissuta con trasporto e intelligenza. Sono convinto che c’è piú abitudine nelle avventure che in un buon matrimonio. Perché il proprio dell’avventura è di serbare una riserva mentale di difesa; per cui non esistono buone avventure. È buona quell’avventura cui ci si abbandona: il matrimonio insomma, magari di quelli fatti in cielo.

Chi non sente il perenne ricominciare che vivifica un’esistenza normale e coniugata, è in fondo uno sciocco che, quantunque dica, non sente nemmeno un vero ricominciare in ogni avventura.

La lezione è sempre una sola: buttarsi a capofitto e sapere portare la pena. È meglio soffrire per avere osato far sul serio, che to shrink (o to shirk?) Come nel caso dei figli: lo vuole del resto la natura, e dare indietro è vile. Alla fine — e si è visto — si paga piú cara.

25 novembre.

La legge morale serve a non fare del male a noi, non a risparmiarlo agli altri. La carità soltanto può dirci quanto male facciamo agendo secondo il nostro dovere. Ciò si vede non solo nei casi d’amore, ma in tutta la vita. Ma questo sarebbe un immenso ideale: chiedere sempre, instancabilmente, a ciascuno che cosa l’offende, lo priva, lo tortura, e compensare, abbracciare, riaccendere.

Ma a ciascuno vuol dire a tutti, e vuol dire sempre, e non si può. Non si può specialmente perché uno almeno non avrebbe questo compenso e questo abbraccio, e quest’uno siamo noi. Per-