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62 1937


Un uomo ha fatto un delitto. Leviamo la paura che arrivi subito qualcuno, l’ansietà della faccia da mostrare al mondo, il terrore del mondo armato contro di lui. Leviamo la preoccupazione di salvarsi, di andarsene come nulla fosse stato; mettiamo che ci sia la certezza di scampare. Non rimane però un abisso di orrore: la certezza che la vittima — adorata o aborrita — non esiste piú, non sarà piú nulla né per il nostro odio né per il nostro amore? L’angoscia di una nuova vita da rifarsi, perché con la vittima siamo morti anche noi, l’improvviso venir meno di tutta la nostra sostanza, che — se il delitto era veramente passionale — faceva un tutto con l’esistenza della vittima?

Eppure non riesco a pensare una volta alla morte senza tremare a quest’idea: verrà la morte necessariamente, per cause ordinarie, preparata da tutta una vita, infallibile tant’è vero che sarà avvenuta. Sarà un fatto naturale come il cadere di una pioggia. E a questo non mi rassegno: perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire? Perché?

Per questo. Si rimanda sempre la decisione sapendo — sperando — che un altro giorno, un’altra ora di vita potrebbero essere affermazione, espressione di un’ulteriore volontà che, scegliendo la morte, escluderemmo. Perché insomma — parlo di me — si pensa che ci sarà sempre tempo. E verrà il giorno della morte naturale. E avremo perso la grande occasione di fare per una ragione l’atto piú importante di tutta la vita.

Pensiero d’amore: ti voglio tanto bene che desidero esser nato tuo fratello, o averti messo al mondo io stesso.

1° dicembre.

La mia felicità sarebbe perfetta, se non fosse la fuggente angoscia di frugarne il segreto per ritrovarla domani e sempre. Ma forse confondo: la mia felicità sta in quest’angoscia. E ancora una volta mi ritorna la speranza che forse domani basterà il ricordo.