Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/283

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III.

A Clelia, la prima sera che facemmo lungo il mare una camminata insieme, raccontai quanto potevo dell’impresa di Doro, e cioè quasi nulla. Pure, la stravaganza della cosa la fece sorridere imbronciata. — Che egoisti, — disse. — Io qui mi annoiavo. Perché non mi avete portata con voi?

Vedendoci arrivare, il pomeriggio dopo la scappata, Clelia non diede segno di sorpresa. Da piú di due anni non la vedevo. L’incontrammo, castana e abbronzata, in calzoncini sugli scalini della villa. Mi tese la mano con un sorriso sicuro, movendo gli occhi sotto l’abbronzatura piú netti e duri che in passato. E s’era subito messa a parlare di quanto avremmo fatto l’indomani. Ritardò, per farmi festa, la sua discesa alla spiaggia. Scherzando le raccomandai Doro che aveva sonno, e li lasciai a spiegarsi, loro due soli. Quella prima sera andai in cerca di una stanza, e la trovai in una viuzza appartata, con la finestra che dava su un grosso ulivo contorto, cresciuto inspiegabilmente proprio nel mezzo dell’acciottolato. Tante volte in seguito, rientrando solo, mi capitò di guardarlo sovrapensiero, che è forse la cosa che meglio rivedo di tutta l’estate. Visto dal basso, era nodoso e scarno; ma dalla stanza, quando m’affacciavo, era un sodo blocco argenteo di foglioline secche accartocciate. Mi dava il senso di trovarmi in campagna, in un’ignota campagna, e sovente fiutavo se non sapesse di salsedine. Mi è sempre parso strano che sull’orlo estremo di una costa, fra terra e mare, crescano piante e fiori e scorra acqua buona da bere. Alla mia stanza si saliva per una scaletta esterna di pietra, ripida e angolosa. Sotto di me, al pianterreno, mentre mi radevo e ripulivo, scoppiava a tratti un baccano di voci discordi, non si capiva bene se allegre o irate, qual-


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