Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/406

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— E le ragazze?

— Te lo dice il padrone. Se non puoi lavorare e guadagnare, me le saluti le ragazze.

Non capii piú quel che volevo dire. Lui Carletto aspettava, con gli occhi da gatto. Avevo in mente un’altra cosa, ben diversa.

— Vedi quello che han fatto in Italia, — mi disse. — Sei padrone di muovere un dito? Puoi lavorare se non hai la carta? Se non chini la testa ti dànno un boccone?

— Io vado in camion senza niente.

— Quel che puoi fare è suonare la chitarra. E in sordina. E nemmeno cantare, perché prendi la multa.

Ecco, pensavo, la chitarra. La chitarra è una cosa che faccio, se voglio. A Novara ci vado, se voglio. Alla tampa ci vado. Con Carletto discorro. Tutto quel che faccio cosí per capriccio, lo faccio da me. Ma le cose importanti, le cose che buttano a terra, queste cose succedono per conto loro. Vengono addosso come un camion, come una brutta polmonite, e dietro c’è qualcuno che ci gode e che gioca.

— Chi vuoi che sia? il Padreterno? — disse lui.

— Se allora c’è, c’è dappertutto, — disse ancora. — Anche dietro alle cicche e alle torri Littorie.

Vennero sere che sapevano un odore di campagna. Quant’avrei dato per andare al Paradiso come prima. Queste sí ch’erano notti da farci l’amore. Alle volte guardavo passando certe vetrine da donne. Milo voleva che portassi la chitarra con me, e una domenica a Pianezza mi fece suonare sul muretto di un ponte mentre passavano ragazze. Si misero perfino a ballare. Da quel muretto si vedeva la pianura, e pareva un terrazzo di Genova. Questa volta capii ch’ero storto sul serio. Mi venne voglia di buttare le ragazze giú dal ponte, e fortuna che c’era da bere e che Milo rideva. Ma ne avevo abbastanza e capivo che ormai tutta quanta Torino e il mestiere e le strade e le pietre di casa non bastavano piú a darmi pace. Neanche l’idea che Carletto non aveva da mangiare, mi teneva tranquillo. Diventavo carogna. Vederlo affamato mi disgustava, perché capivo che se avesse avuto i mezzi mi avrebbe piantato anche lui.

— Non c’è pericolo, — mi disse, — non vuoi mica che parta senza farmi un vestito. A Roma non posso arrivare cosí.

Mi parlava di Roma, come Milo di donne. Mi diceva che Roma


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