Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/408

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XII.

Quando arrivai a Roma sul camion che Milo mi aveva trovato, ero contento di aver fatto tanta strada e che al mondo ci fossero degli altri paesi, delle città, delle montagne, tanti posti che non avevo mai visto. Arrivammo di notte. Carletto dormiva appoggiato al conducente. C’eravamo fermati a cenare in un paese di mezza collina; e in quella bettola con due corna di bue attaccate al soffitto e i paesani che gridavano come se fossero signori, avevo smesso di pensare a casa mia. Era bello sapere che Amelio non era mai stato laggiú. — Questa volta, — dicevo a Carletto, — l’abbiamo decisa noialtri.

— Non si sa ancora, — disse lui. — Ci è andata bene.

Faceva fresco quella notte, e il conducente ci lasciò in fondo a un viale, sulla riva del fiume. Io non volevo andare a casa e svegliare le donne. — Camminiamo per Roma, — dicevo, — fra tre ore è mattino — . Ma avevamo chitarra e bagaglio. — E se passa una ronda? — diceva Carletto.

Dorina stava su una piazza in capo a un ponte. — È ponte Milvio — . Io camminavo e mi guardavo intorno. C’erano case a dieci piani e da ogni parte le colline illuminate. Non passava nessuno. — Sembra d’essere a Torino nel centro, — dicevo. — Invece siamo in barriera.

Mi svegliai l’indomani in casa d’altri, su un sofà basso basso. Non ero in casa di Dorina; la notte vedendoci, Dorina e le figlie e la nonna avevan fatto tanto chiasso che le porte vicine s’erano aperte, e siccome non c’era altro posto m’aveva preso in casa sua una vecchia grassona che spuntò sulla scala in camicia da notte e con Dorina si gridarono come fossero in urto. Ma era il fare di Roma, e la vecchia mi disse di entrare da lei che non aveva ra-


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