Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/414

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XIII.

Guadagnare qualcosa non era poi difficile, e si vede che Roma era piena di Pabli. Tutti mi dicevano che dovevo suonare, che dovevo aggiustarmi con qualche padrone e divertire i suoi clienti ai tavolini. Ma stavolta non c’era da far lavorare Carletto, e andando in giro davo l’occhio alle vetrine dei meccanici, entravo in tutte le rimesse e m’informavo. Anche a Roma un lavoro di questi l’avrei fatto. Ma chi voleva la patente, chi mi chiedeva il benservito, chi non credeva che venissi da Torino. — Sono arrivato sopra un camion, — gli dicevo. — So portarlo — . Ero stato uno scemo a non prendere nome e recapito di quel camion che ci aveva aiutati. A due passi da casa, su uno stradone che si chiama la via Cassia, c’era un ciclista che aggiustava anche selle e finimenti. Lí nemmeno sembrava che fossimo a Roma e il ragazzetto che teneva la baracca mi disse: — Bisogna parlare alla Bionda — . Io credevo che fosse una bionda, e invece vedo una faccia da zingara, con le sottane che sembravano calzoni e la blusa a quadretti. Mi guardò la cravatta e le scarpe — la cravatta era buona, le scarpe bucate — e mi disse: — Conosci qualcuno? — Non ancora, — le dissi. Mi prese.

Con quel va e vieni di stradini e manovali che facevano un ponte a due passi dal nostro, c’erano sempre biciclette da aggiustare. Pippo il ragazzo era piuttosto per salirci e far le corse. Questa Bionda era una vedova — il Biondo era morto — e non sapeva come fare a non rimetterci i clienti. Ci trattava con gli sguardi cattivi e con poche parole; si capiva che aveva paura di dar confidenza; era di quelle che i mariti li fan fuori e poi li piangono di notte. Pippo diceva che di notte era sonnambula — ce l’aveva la faccia scarnita e gli occhietti, una faccia da vedova. Stava sempre nel


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