Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/416

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le piante fiorite facevano estate. Passando il ponte per andare in trattoria, vedevo a destra le colline con quei pini, e non capivo perché fossero bruciate e spelacchiate.

— È la città che se le mangia, — diceva Carletto.

— Che storie.

— Con tante piante che c’è a Roma, non è il terreno che fallisca. È che Roma ha spianato le campagne e le colline, e sta in mezzo a un deserto.

Quando gli chiesi se dai colli o da San Pietro non si vedeva un po’ di mare, lui mi disse che dovevo andarci: avrei fatto piú presto. Senza dir nulla alla famiglia, un bel mattino presi il tram. Scesi a Ostia e arrivai sulla spiaggia. Mi ricordavo di quel sogno con Lilí, che correvamo in riva al mare. Da molto tempo non sognavo piú donne. Camminai sulla sabbia bagnata. Sembrava un prato e mi sedetti sulla sabbia e guardavo le schiume. Poi camminai verso dei pini neri neri in lontananza e camminando davo calci alle immondizie e pensavo alla sciarpa trovata da Amelio.

Tornai la sera e avevo ancora quel sapore sulla bocca. Adesso capivo perché a Roma la gente riempiva le strade e ridevano e andavano, e non solo i ricconi ma anche in barriera. Bastava guardare quel cielo sui tetti, per convincersi che il mare non era lontano. Dalle finestre, dalle porte, dalle terrazze, anche i poveri diavoli sentivano il mare. Manovali, ragazze, bambini, operai; gente povera, sfaticati che uscivano in strada e parlavan forte e ridevano. Un mattino incontrai dei fascisti. Ridevano anche loro. C’era stata adunata e tornavano a casa cantando.

— Hanno trovato la vigna, — mi disse Carletto. — Hai mai visto scontento chi mangia e beve?

— Sembran gente anche loro.

— Non è mica Torino. Qui a Roma si viene per mettere il lardo. Qui si godono i frutti. Prova a togliergli il piatto e poi vedi.

— Ma quanti sono che rosicchiano? — gli dissi. — L’Italia è piena di scannati che non mangiano, e se chiedi son tutti fascisti.

Allora facemmo i discorsi di Amelio. I discorsi che Amelio cominciava soltanto, poi scuoteva la testa e diceva: «Sciocchezze», quando partiva sulla moto e lo aspettavano a Novara. A quel tempo capivo che non si fidava di me perché mai ch’io leggessi un giornale o dicessi qualcosa. Ci pensavo qui a Roma. Adesso sí che avrei voluto averlo accanto.


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