Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/432

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quel letto a darle ascolto una mezz’ora. Mi parlava di quando era ancora ragazza, del negozio che avevano di là da quei monti, dove suo padre aveva fatto il carradore e il maniscalco, e ci veniva un suonatore di chitarra come me. Volle lavarmi lei la roba e ricucirmela. Mi faceva insalate col pepe e la carne. Una sera mi disse tra brusca e piangente che non poteva avere figli perché l’avevano operata. Disse: — Non devi aver paura, — e mi tirava addosso a sé. Le risposi che non si sa mai.

Era giugno e pensavo di andare sul Tevere. Ma non ero tranquillo. Avrei voluto stare in casa tutto il tempo per sentir subito le nuove se arrivavano. E Dorina un bel giorno doveva tornare. E Fabrizio mi aveva promesso di dirmi qualcosa. Certe volte pensavo che forse era meglio cosí. Non avrei visto piú nessuno, non avrei piú pensato male. Avrei passato quell’estate a lavorare nel negozio. «Uno a Torino e un altro a Roma» borbottavo. — Resta con me, — diceva Gina quelle sere. Meno male, mi dissi, ch’ero sempre sull’ala.

Un giorno misi le mani su quel pacco di libri. Non li avevo buttati nel Tevere. Erano vecchi e bisunti. Me li guardai per passatempo e dissi a Gina: — Se qualcuno ti chiede, quest’è roba del Biondo — . Ce n’era di scritti in francese e altre lingue. Li feci fuori l’indomani giú dal ponte. Ma quelli scritti in italiano me li tenni. Raccontavano come era andata la guerra del ’15 e la storia del Fascio e la marcia su Roma. C’erano dentro i socialisti e tutti quanti, contadini, operai, metallurgici, squadre d’azione. I fascisti li avevano carcerati e picchiati, ammazzato i piú in gamba, e incendiate le case del popolo. «Guarda guarda, — dicevo, — leggi il giornale e non si parla che del popolo italiano». Chi pagava i fascisti erano sempre i signori, e gli squadristi i loro figli. Faceva rabbia legger come tanta gente che lavora s’era fatta fregare da quattro padroni. «E Carletto che vuole ancora fidarsene, — dicevo. — E Luciano ch’è dentro per loro».

Tutte le sere ne leggevo un altro pezzo, col batticuore quando un passo si fermava sulla porta, e capivo che un libro cosí non potevo buttarlo via. «Ma li ha letti Carletto? — pensavo. — Possibile?» Ce n’era un altro intitolato Roma o Mosca, e mi lessi anche questo perché a Roma ci stavo. Quest’era un libro che nessuno mi poteva metter dentro. Non parlava di Roma. Raccontava che in Russia la gente moriva in prigione, che vivevano in dieci in un


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