Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/459

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tura cominciava fra sei giorni. «Sta’ a vedere, — pensavo, — che la torre Littoria gliela fa un’altra volta».

Poi spuntarono gli altri e ci furono feste, saluti, risate. Non mi sentivo mica a posto, in mezzo a tutte quelle facce. Mi pareva di averci con me Gino Scarpa, la sua voce, il suo ridere, e che in mezzo alla gente qualcuno sbucasse. — Si va a cena? — ci disse Dorina.

Dove cenammo era famoso per porchetta e mozzarella. Carletto rifece per noi qualche scena sintetica; era ancora piú in gamba di un tempo, ma ci serviva un cameriere in giacca bianca, e la cosa cambiava. Chi rideva da folle mordendosi il pugno, era Gina; io capivo che, povera donna, aveva ancora il batticuore per noi due, e per questo rideva cosí da ubriaca. Non una volta in quei due giorni che si fosse lamentata.

Passò cosí tutta la sera, e ritornammo al Milvio in gruppo. Mi faceva un effetto trovarmi con loro, sentire le voci e i discorsi d’un tempo; in quei due giorni eran successe tante cose che mi pareva di non essere piú quello. Si diceva, si andava, si rideva cosí; potei perfino ricordarmi che anche loro avevan fatto, che a sentire Luciano facevano ancora, ma capivo che c’era qualcosa tra noi, come un muro o una siepe spinata. Potevamo parlarci soltanto per ridere, e con Giulianella si scherzò dei fatti miei. Poi sul fatto del Plaza giocai con Carletto e gli dissi che, passi venirmi a cercare, ma portarmela a casa, volevo picchiarlo. — In questa storia ci sei sempre tu, — gli dicevo, — come mai? Sono almeno partiti? — Lui mi disse di sí. Mi dispiacque.

Per un pezzo i compagni non si fecero vivi. Non sapevo piú niente né dell’oste né degli altri. Se almeno Scarpa fosse stato ancora a Roma, potevamo incontrarci per caso. Certi giorni non ero tranquillo. Finí che mandai Pippo sull’Aurelia con dei pezzi, e gli dissi di fare attenzione chi c’era alle macchine. Mi mandarono a dire che stessi tranquillo. C’era ancora pericolo e niente da fare.

Passai cosí gli ultimi giorni spensierati. Gina sentiva che qualcosa era nell’aria. Diceva: — Che vuoi lavorare? Chiudi bottega e andiamo a prendere Dorina. Non vuoi goderli questi giorni? Tornammo a Ostia, alla pineta, a quelle strade fuori porta. Anche noi due bastavamo a stare allegri. Era settembre, c’era un’aria come il vetro.


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