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Guardavo le bettole, le piante nere, i palazzi, le pietre vecchie e quelle nuove — e capivo che un sole cosí non si vede due volte. Quanta frutta vendevano a Roma. Quei verdi, quei rossi, quei gialli sui banchi, erano loro il colore del sole. Mi venne in mente che a Torino avrei mangiato della frutta e sentito il sapore di Roma cosí.
Arrivammo sul posto. Gina mi disse: — Quante cose vorrei fare.
— Sai com’è, — dissi allora. — Non si ha mai tempo, è come in cella. Uno dice: «Quando esco mi voglio sfogare. Voglio fare le cose piú matte». Ma quando esci fuori e puoi tutto, fai sempre soltanto le cose di prima.
— Vorrei che fosse il primo giorno. Quando dovevi ancor venire.
— Domani sarà come dici.
— Che spavento. Tu a Roma sei venuto per caso.
— Non è questo che conta. Le cose succedono. Basta volere veramente quel che fai.
Eravamo seduti all’aperto, nel sole.
— Sono poche le cose che voglio, — le dissi. — Meno ancora di prima.
— Scarpa diceva che in prigione è come i morti, — disse lei, — fa paura pensarci.
— Non devi pensarci.
Poi le dissi: — Ci sono anche i morti. Tutto sta tener duro e sapere il perché.
Restammo un pezzo in quella bettola, bevendo. Gina giocava con la griglia e guardava nel sole. Gli uccelli volavano bassi. Venne un gatto e saltò sopra il tavolo. Anche Gina se ne stava aggobbita e raccolta.
Parlammo ancora di Torino e della casa. Lei mi parlò di Carlottina e di mia madre. — Le vedrò quando vengo a Torino? diceva.
Tornammo a piedi, verso sera. C’era un sole d’oro fra le pietre e le piante. Era l’ora che in carcere battono i ferri. Raccontai a Gina di Amelio. Lei stette a sentire, tenendomi il braccio.
— Verrà a Roma, — le dissi, — verrà anche lui. Come gli altri.
Poi ci lasciammo sulla porta del negozio. Era già notte.
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