Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/76

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Non faceva gran freddo per le strade, ma il mattino e la sera, nella stanza bassa, intirizzivano e costringevano a infilarsi un pastrano, quello che Stefano sin dalla primavera s’era portato sotto il braccio. Qualche volta era luce cenerognola, o sgocciolante, che raffiche di vento spazzavano. C’erano smorti pomeriggi di sole.

Stefano teneva un catino pieno di cenere, dove bruciava carbonella per fare la brace e sedercisi accanto e passare la sera intorpidito. Arroventare e incenerire carbonella era molto faticoso, perché bisognava star fuori nel freddo e sventagliare una fiammata di rami e chinarvisi a lungo ottenendo che il gas del carbone dileguasse, sotto il vento e la pioggia. Quando rientrava col catino, Stefano era rotto e intirizzito, sudato, livido; e sovente alla brace restava una vampa azzurrina che lo obbligava a spalancare la porta per sfogare il pericolo. Allora, sulle sue gambe poggiate a rosolarsi contro il catino, giungeva il fiato diaccio del mare. Allontanarsi e scaldarsi non poteva, dopo l’imbrunire. Nemmeno Giannino — pensava allora — poteva allontanarsi, e lui non aveva braciere.

Un mattino che il cortile era un pantano, Stefano si dilungò a mangiucchiare pane e un’arancia, buttandone le scorze nella cenere spenta, come faceva verso sera sulla brace per rompere il tanfo dei muri bagnati. Non usciva il sole, e il pantano era grande. Comparve invece Elena con un fazzoletto in capo, e il ragazzo dell’anfora. Da quella notte dell’armadio non l’aveva piú vista, ma, benché gli avesse davvero ritolto l’armadio e rimessa la roba nella valigia, Elena era tornata in sua assenza, di tanto in tanto, per rifare la stanza. Comparve dietro il vetro col viso imbronciato di sempre, e


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