Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/77

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parve assurdo a Stefano l’averla avuta nel suo letto. Eccola ferma, smorta.

Stefano era fiacco: pochi passi lo portavano ormai a un limite, non andava mai oltre la spiaggia o l’osteria. Dormiva poco la notte; un affanno e una smania continui lo facevano balzare ai primi albori, nell’aria fredda. Quel mattino, per fare qualcosa s’era alzato anche prima di giorno. Era uscito imbacuccato nel cortile, dove sotto un cielo silenziosamente nero aveva acceso una corta pipetta come quella di Giannino. Era un tempo rigido, ma nell’ombra saliva dal mare come un alito che accompagnava il vacillio delle stelle, enormi. Stefano aveva pensato a quel mattino della caccia, quando nulla era ancora accaduto, quando Giannino fumava e la casa di Concia, pallida e chiusa, attendeva. Ma il vero ricordo era un altro, piú segreto, era un punto in cui tutta la vita di Stefano ardeva silenziosa, e a ritrovarlo era stata tale la scossa che gli era mancato il respiro. L’ultima notte ch’era stato in carcere, Stefano non aveva dormito; e poi gli ultimi istanti, già chiusa la valigia e firmati i suoi fogli, li aveva attesi in un transito ignoto, dagli alti muri scrostati e umidicci, dalle finestre grandi e aperte sul cielo nudo, dove l’estate addolciva il silenzio e vacillavano calde stelle che Stefano aveva creduto lucciole. Da mesi non vedeva che pareti torride dietro le sbarre. D’un tratto aveva compreso che quello era il cielo notturno e che l’occhio arrivava fin lassú, e che a giorno sarebbe stato su un treno, attraverso una campagna estiva, libero di spaziare, verso invisibili pareti umane e per sempre. Quello era il limite, e tutto il carcere silenzioso ricadeva nel nulla, nella notte.

Ora, nella pace sommessa del cortiletto, Stefano aveva fatto giorno, fumando come Giannino e ascoltando il fragore monotono del mare. Aveva lasciato che il cielo impallidisse e che le nuvole trascolorassero, levando il capo come un ragazzo. Ma nella carne del cuore gli doleva quell’altro ricordo, quell’anelito estatico a una solitudine che stava per finire. Che cosa ne aveva fatto, di quella morte e di quella rinascita? Forse adesso viveva diverso da Giannino? Stefano aveva stretto le labbra, tendendo l’orecchio al fragore del mare, sempre uguale nell’alba. Poteva prendere l’anfora e salire sulla strada e riempirla alla fontana fredda e roca. Poteva rientrare e rimettersi a letto. Le nuvole, i tetti, le finestre chiuse, tutto in quell’attimo era dolce e prezioso, tutto era come uscire


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