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capitolo quarto 205

Il Rossi tornò a Frascati. Il 2 agosto il Mamiani definitivamente si dimise e il Cardinale Soglia e il Conte Eduardo Fabbri composero il giorno 8 agosto il nuovo fiacchissimo ministero, il quale si trovò subito, proprio come pulcino avviluppato nella stoppa, al sopravvenire della bufera recata dalla invasione dello stato romano per parte degli Austriaci, condotti dal maresciallo Welden e - come accennai - alle conseguenze di quella, cioè vittoria popolare a Bologna e successivo impero della plebaglia, parossismo d’ira nelle popolazioni, istituzione di Comitati provvisori di guerra in quasi tutte le provincie, agitazione vivissima, omicidi politici qua e lá, insufficienza e impotenza del governo da per tutto, convenzione conchiusa fra i rappresentanti del Papa Cardinale Marini, Principe Corsini e Conte Guarini e il maresciallo Welden per il rispetto dei confini dello stato romano - conven-

    tirannia del tempo e dello spazio, io non mi posso soffermare, legga le ricordate Memorie di G. Pasolini, raccolte da suo figlio, da pag. 120 a pag. 1:19, e i Ricordi di M. Minghetti, vol. II, pag. 108 e seg.; due opere uscite assai dopo la pubblicazione delle storie su rammentate e che, per ciò, sulle narrazioni di quegli storici apportano chiarimenti ed esplicazioni.

       Solo riferirò alcune parole del Conte Terenzio Mamiani, a proposito del possibile ministero Rossi, tratte da una lettera che l’illustre pesarese scriveva il 24 luglio 1848 a Marco Minghetti e da questo riportata nei suoi Ricordi (vol. Il, pag. 2G0). «A quel che si dice qui oggi» — scriveva il Mamiani al Minghetti — «voi siete chiamato in fretta ad entrare al ministero insieme col Rossi ex ambasciatore. Dio voglia che sia; bisognando a questo paese un governo forte e nomi che ispirino giusta fiducia, e se il Rossi non va a genio a tutti come spirito liberale, può vincere l’antipatia in virtù dell’altissimo ingegno e della consumata esperienza».

       Lo scoramento del Minghetti appare, del resto, nella sua lunga lettera al Pasolini, della metà di agosto; nella quale si mostra spaventato di tutto quel cumulo di errori e di tutto quel diavoleto, quasi che una rivoluzione dovesse essere un’Arcadia da condursi coi guanti color tortora, condita di biscottini, tutta ordinata e tranquilla, lemme lemme, per viuzze fiorite, al suono delle zampogne, fra l’accordo generale dei pastorelli, senza passioni, senza partiti, senza giornali, senza dissidi, senza lotte e senza sangue. In quella lettera l’illustre statista bolognese vedeva tutto nero. «Che direi» — egli esclama, dopo aver pianto per quasi tre pagine sull’Italia — «se parlassi dell’Europa intera? La quale è agitata da una crisi di cui non si vede nè prossimo il termine, nè chiaro il fine. Spente le credenze religiose, scossi i principi morali, nessuna fede politica, le nazioni oberate di debiti, i bisogni di tutti superiori ai mezzi, una licenza intellettuale che ogni dì partorisce nuove e mostruose dottrine... ma insomma io voglio finirla con lo tristezze, anzi vi pregherei di bruciare questa lettera troppo sconfortante».

       Se il Pasolini gli avesse dato ascolto sarebbe stato un vero peccato; innanzi tutto perchè la lettera è bella, poi perchè essa ritrae al vivo le impressioni e i sentimenti di un insigne uomo su quel momento storico, da ultimo perchè sarebbe andato perduto il prezioso poscritto, che è come la legittimazione di tutti i disordini nella lettera deplorati, è come la confes-