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308 pellegrino rossi e la rivoluzione romana

A Livorno, dove imperava ormai non già la democrazia, ma la demagogia, la sera del 18 novembre, allorchè vi giunse la notizia della morte del Rossi, più migliaia di persone si erano raccolte attorno ad una bandiera tricolore e avevan fatto suonare a festa le campane e si eran recate alla residenza del console romano, a casa del La Cecilia redattore del Corriere Livornese e quindi al palazzo ove aveva sede il governatore Carlo Pigli.

Là questi era stato costretto a parlare — e parlava volentieri lui e, talvolta, anche a vanvera — alla folla acclamante alla costituente e all’Italia, al Montanelli e al Guerrazzi: ed aveva sconsigliatamente detto: «Il ministro Rossi non era amato dall’Italia, solamente pei suoi principi! politici. Dio nei suoi arcani consigli ha voluto che egli cadesse per mano di un figlio dell’antica repubblica di Roma: Dio custodisca l’anima sua e la libertà di questa povera Italia»1.

Un altro illustre patriotta e scrittore italiano così acutamente giudica le intenzioni, il ministero e l’opera di Pellegrino Rossi:

«Rossi voleva riedificare il primato papale, dandogli a barbacane, non la monarchia Sabauda, come era stata intenzione del Gioberti, ma la Borbonica; voleva raffrenare gl’istinti generosi, irrequieti e bellicosi della democrazia, creando, ad esempio di quel che fece Filippo d’Orléans in Francia, una borghesia taccagna e paciona: voleva rimettere a nuovo il governo pontificio con quanto più potesse di modernità col lascia passare della benedizione papale. I quali intendimenti gli rovesciavano addosso le ire dello universale. Caricare di due milioni di più la proprietà dei conventi, ordinare telegrafi, fondare uffici di statistica e cattedre di economia politica, togliere l’amministrazione degli spedali alla Sacra Consulta, riformare i tribunali, questa per i preti era la demagogia al naturale. Costoro vedevano in Rossi il professore bolognese giacobino del Quat-

  1. Risposta di Carlo Pigli all’apologia di F. D. Guerrazzi, Arezzo, Filippo Borghini editore, 1802, pag. 103 e seg. Cfr. col Corriere Livornese del 18 marzo 1848, il quale, le dimostrazioni di esultanza dei Livornesi per la morte del Rossi e le parole del governatore commentava con le seguenti linee: «Tutto questo non perchè i Livornesi applaudissero alla morte dell’uomo, ma a quella di un principio politico: la sua fine eccitava compassione, rammarico, ma i suoi sentimenti... destavano sdegno».