Pagina:Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana I.pdf/338

Da Wikisource.
330 pellegrino rossi e la rivoluzione romana

pagine. In queste pagine sono raccolte ottocentoquarantotto deposizioni fatte da cinquecentodue testimoni, alcuni dei quali furono interrogati due, tre, quattro, cinque, qualcuno fino a sette volte; il turpissimo rivelatore impunitario Filippo Bernasconi fu esaminato venti volte. In quelle deposizioni non sono annoverati i costituti dei vari imputati, costituti che ascendono al centinaio.

Il processo, iniziato il 15 novembre 1848, dopo pochi giorni rimase sospeso; ne fu ripresa la compilazione il 3 settembre 1849, spinto avanti con vigore, subì pur tuttavia due lunghi intervalli di interruzione, e il lettore vedrà in seguito perchè; fu chiuso il 30 giugno 1853 e la compilazione di esso durò quindi, comprese le interruzioni, tre anni e otto mesi.

Il processo comincia con l’atto di ricognizione, consistente in una prima relazione e constatazione dello stato del cadavere di Pellegrino Rossi in casa del Cardinale Lodovico Gazzoli. In quella relazione è descritta la ferita e una piccola piaga linfatica purulenta nel braccio destro, già preesistente e medicata con apparecchio. In quell’atto si fa pure la constatazione delle carte rinvenute presso l’ucciso e chiuse e sigillate in un pacco.

Sono firmati nell’atto: Antonio dott. Bertini medico-chirurgo fiscale, Cesare Pifferi sergente nel II battaglione civico, testimonio, cavalier Francesco Rinaldi, sergente del I battaglione civico, testimonio, Pomponio Angelilli giudice, C. Bianconi attuario. L’atto è in data di mercoledì 15 novembre 18481.

Il 15 stesso, a sera, il giudice processante Pomponio Angelilli interroga Giovanni del fu Francesco Pinadiè (sic), domestico del Conte Rossi, di anni 28, il quale afferma che, appena entrata la vettura nel portone del palazzo della Cancelleria, si sono uditi alcuni fischi; che, quando il Conte discese, quelli sono aumentati; che, mentre egli era voltato a rimettere su il montatoio dello sportello, il suo padrone era stato colpito e, quando egli si voltò, lo vide caduto e accorse ad aiutarlo. Dice di aver consegnato l’orologio a cilindro del padrone con la catenina d’oro al cameriere di lui Germano Pinadiè (sic), il quale, quantunque abbia il suo stesso cognome, non è suo parente. Afferma

  1. Processo, foglio 1 a 10.