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166 il processo di pellegrino rossi

E, quindi, se quei quattro fossero stati in potere del Supremo Tribunale, questo, anche risultando che il Brunetti era stato il materiale percussore, avrebbe condannato tutti quei quattro all’estremo supplizio come condannò Sante Costantini e come avrebbe condannato il Brunetti, se lo avesse avuto in suo potere.

E non intendo di giustificare, ma di spiegare storicamente soltanto.

Luigi Grandoni, figlio di Pietro e di Innocenza Giuliani, aveva sortito da natura un temperamento irruente e bisbetico.

Dal padre, agiato possidente e mercante di campagna, era stato avviato agli studii; e dalle frequenti citazioni latine che si incontrano nei quattordici costituti di lui si dovrebbe dedurre che il Grandoni fosse dotato di felice memoria e che avesse frequentato anche le scuole di diritto alla Università.

Ma da quei costituti e da tutte le irrequietezze e stranezze della sua vita di Colonnello del Battaglione Reduci, di cui or ora parlerò, traendole da un documento ufficiale, si può affermare che l’intelletto di lui fosse un intelletto esquilibrato.

Non pare che in quel cervello il limitato raziocinio e il modesto discernimento fossero in equa corrispondenza con la torbida fantasia, agitata da sogni ambiziosi.

E pari esquilibrio era nel suo carattere, il quale dagli atti processuali risulta composto da un fondo di grande rettitudine, di abituale probità, di alterezza coraggiosa, di puntigliosa fermezza, in cui si insinuavano le due passioni dominanti in quell’uomo la vanità e l’ambizione.

Nella coscienza del Grandoni c’era un fortissimo sentimento di onore da cui il soverchiante amor proprio di lui traeva un eccessivo sentimento di sè stesso e, da questo esagerato sentimento di sè stesso fuso con la vanità, scaturiva nel Grandoni una straordinaria presunzione, la quale tanto più sembrava svilupparsi e crescere in lui quanto più sembrava che gli altri non comprendessero e non apprezzassero debitamente i meriti di cui egli si riputava adorno.