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capitolo ventesimo | 181 |
e stabilito, in omaggio alla verità storica, a chi spetti la responsabilità di quel delitto e, dimostrato come esso fosse il prodotto di una segreta trama ordita e mandata ad effetto da un ristrettissimo manipolo di settarii, diretti e guidati da quattro o cinque Carbonari, io nutro la profonda convinzione che sia ugualmente dimostrata da oggi in poi una verità ed è questa: che nella uccisione di Pellegrino Rossi nessuna partecipazione ebbero nè il Mamiani, nè il Galletti, nè il Campello, nè lo Spini, nè l’Armellini, nè il Torre, nè lo Sturbinetti, nè il Montecchi, nè alcun altro degli uomini autorevoli del grande partito liberale romano, onde, da ora innanzi, la storia imparziale non potrà più ascrivere a colpa di tutto quel partito, composto allora in maggioranza dalla parte migliore delle popolazioni dello stato pontificio, un fatto che fu opera tenebrosa di una piccola frazione estrema del partito stesso.
Dei mandanti e dei mandatarii varie furono le vicende e diverse la fine. L’infelice Ciceruacchio e Luigi suo figlio furono fucilati, anzi assassinati, insieme al tredicenne e assolutamente innocente Lorenzo, a Ca’ Tiepolo, nel Polesine, 11 10 agosto 1849, per ordine dell’infame croato Tenente Buckovina.
Felice Neri, come i lettori sanno, morì, durante il processo, divorato dalla tisi galoppante alla infermeria delle Carceri di San Michele in Roma e Sante Costantini lasciò, come i lettori hanno veduto, intrepidamente la testa sul patibolo il 22 luglio 1854. Angelo Bezzi morì a Londra, ove si era rifugiato, assai prima della liberazione di Roma e Filippo Trentanove, che non venne più da Londra a Roma, è morto recentemente in tarda età.
Ruggero Colonnello, Innocenzo Zeppacori, Bernardino Facciotti, il Capanna, Francesco Costantini che si trovavano chi nella rocca di Narni, chi in quella di Spoleto a scontare le varie e gravissime pene a cui erano stati condannati, rimasero liberati nel 1860 per la irruzione dell’esercito italiano nell’Umbria. Il Colonnello pare che riparasse in Piemonte e nel 1870 era in carcere a Torino per reati comuni e scriveva al chiaro avvocato Ernesto Pasquali, che