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detratti dalla greca, li quali subitamente in guisa le si appiccarono e si fecero simili al tronco, che oggimai non pajono rami adottivi, ma naturali, onde nacquero in lei que’ fiori e que’ frutti sì coloriti della eloquenza.

Ciò premesso seguiamo la lingua latina nelle sue varie vicende. Sollevata all’ultima altezza parlò da regina nella corte di Augusto. Ma il suo Tullio previde (e il dichiarò ne’ suoi scritti) che non avrebbe durato in tanta gloria. E già subito il fasto di Lucano, e l’affettato splendore di Seneca le guastò la nativa purezza. Intanto genti straniere e barbare correano ai sette colli a porger tributo al Romano Impero. Allora col linguaggio de’ vincitori frammischiossi pur quello dei vinti in bocca degli schiavi e delle trecche sul mercato. Poi dietro alle Aquile vincitrici fu spedita anch’essa da per tutto. Così come quelle fosse stata riverita! Ma frammista al Celtico, al Gallico, al Teutonico linguaggio sonò sul labbro di Pretori, di ministri, di soldatesche Romane che le leggi non le frasi del Lazio poteano far rispettate.

Così fra genti barbare e feroci
Barbari accenti e voci
Fu dal destino a profferir costretta.


Fra tanto orrore si rifugiò all’ombra de’ chiostri e dell’are, negli atrj sacri de’ Vescovi e de’ Papi, e trovava ristoro: ché sola la Chiesa Cattolica fu sempre l’asilo di ogni sapere, e coltura. Ma Ungheri, Saraceni, o Mori d’Africa e di Spagna, e Unni, e Vandali, e Goti dall’Alpi, e dagli Apennini calarono a torrenti: e col ferro e col fuoco strussero archivj e biblioteche con quegli ultimi avanzi che nelle chiese e ne’ monasteri serbavansi, sì che consunti furono e codici e pergamene, frutto delle veglie e delle fatiche de’ pazienti e benemeriti ordini regolari. Allora appena fu più conosciuta: ché cenni e piuttosto urli che voci bastavano per chi avea la spada sempre in mano a farsi inten-

 
 
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