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l’ironia comica nella poesia cavalleresca 105

gioni del buon senso, di cui il poeta è dotato; sono le ragioni della vita entro i limiti della possibilità naturale: limiti che in parte la leggenda, in gran parte il capriccioso arbitrio di rozzi e volgari cantatori aveva balordamente, goffamente o grottescamente violati; sono le ragioni del tempo, in fine, in cui il poeta vive.

Abbiamo veduto Ferraù e Rinaldo a cavallo insieme, guidati — com’ho detto — da un criterio molto positivo e pochissimo cavalleresco; abbiamo ascoltato il consiglio dell’abbate a Rinaldo in cerca d’avventure; tant’altri esempii potremmo recare; ma basterà senz’altro quello de la volata di Ruggiero su l’ippogrifo. Anche quando il poeta con la magia dello stile riesce a dar consistenza di realtà a quell’elemento meraviglioso, levandosi poi a un volo troppo alto in questa realtà fantastica, tutt’a un tratto, quasi temesse d’averne lui stesso o chi l’ascolta il capogiro, precipita a posarsi su la realtà effettiva, rompendo così l’incanto della fantastica. Ruggero vola sublime su l’ippogrifo; ma anche dalla sublimità di quel volo il poeta avvista in terra le ragioni del presente, che gli gridano: — Cala! cala!

Non crediate, Signor, che però stia
Per sì lungo cammin sempre su l’ale:
Ogni sera all’albergo se ne gìa
Schivando a suo poter d’alloggiar male.

E quest’ippogrifo è vero? proprio vero? Lo rappresenta cioè il poeta senza mostrare affatto coscienza dell’irrealità di esso? Lo vede la prima volta calar dal castello d’Atlante sui Pirenei, con in groppa il mago, e dice che — sì — il castello, come castello, non era vero, era finto, opera di magia; ma l’ippogrifo no, l’ippogrifo era vero e naturale. Proprio vero? proprio naturale? Ma sì, generato da un grifo e da una giumenta. Sono animali che vengono nei monti Rifei.