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caratteri e materia dell’umorismo 173

mulazione, tanto meno avvertite quanto più sono divenute abituali, così simuliamo e dissimuliamo con noi medesimi, sdoppiandoci e spesso anche moltiplicandoci. Risentiamo noi stessi quella vanità di parer diversi da ciò che si è, che è forma consustanziata nella vita sociale; e rifuggiamo da quell’analisi che, svelando la vanità, ecciterebbe il morso della coscienza e ci umilierebbe di fronte a noi stessi. Ma quest’analisi la fa per noi l’umorista, che si può dar pure l’ufficio di smascherare tutte le vanità, e di rappresentar la società, come fa appunto il Thackeray, quale una Vanity Fair.1

E l’umorista sa bene che anche la pretesa della logicità supera spesso di gran lunga in noi la reale coerenza logica, e che se ci fingiamo logici teoreticamente, la logica dell’azione può smentire quella del pensiero, dimostrando che è una finzione il credere alla sua sincerità assoluta. L’abitudine, l’imitazione incosciente, la pigrizia mentale concorrono a crear l’equivoco. E quand’anche poi alla ragione rigorosamente logica si aderisca, poniamo, col rispetto e l’amore verso determinati ideali, è sempre sincero il riferimento che facciamo di essi alla ragione? È sempre nella ragione pura, disinteressata, la sorgente vera e unica della scelta degli ideali e della perseveranza nel coltivarli? O invece non è più conforme alla realtà il sospettare che essi siano talora giudicati non già con un criterio obiettivo e razionale, ma piuttosto a seconda di speciali impulsi affettivi e di oscure tendenze?

Le barriere, i limiti che noi poniamo alla nostra coscienza, sono anch’essi illusioni, sono le condizioni dell’apparire della nostra individualità relativa; ma, nella realtà, quei limiti non esistono punto. Non soltanto


  1. Lo stesso ufficio si dà il Thackeray anche nel Libro degli Snobs e in quella «Novella senza eroi, o vanità illuminate con le candele stesse dell’autore».