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l’umorismo e la retorica 57

vuoto d’idealità cadute o cadenti; come se insieme con quattro o cinque dotti aridi e vacui non ce ne fossero stati tant’altri pieni di vita e d’ardire, nel cui latino palpitano e vibrano le energie tutte della lingua italiana; come se per entro al Facetiarum libellus unicus di Poggio, per esempio, non spirassero aure nuove;1 come se il Valla fosse soltanto autore del trattato Elegantiarum latinae linguae; come se nel Pontano e nel Poliziano e in tanti altri non fosse così intero e fresco il sentimento della realtà, che il Poliziano poi, componendo in volgare, potè aver tutte le grazie ingenue d’un poeta popolare. E sotto questo mondo dei dotti, così sommariamente considerato, non c’era forse il popolo? E si può dire, d’altro canto, che i nostri poeti cavallereschi, ad esempio, diedero solamente una maggior bellezza esteriore, una linea più composta, più armoniosa alla materia romanzesca, se da capo a fondo la ricrearono con la fantasia? Altro che bellezza esteriore!

Si è troppo ripetuto, e con troppa leggerezza, che nell’indole della nostra gente predomini l’intelletto più che il sentimento e la volontà, cioè la parte obiettiva più che la subiettiva dello spirito, donde il carattere dell’arte nostra più intellettualistica che sentimentale, più esteriore che interiore.

L’equivoco qui è fondato nell’ignoranza del procedimento di quell’attività creatrice dello spirito, che si chiama fantasia: ignoranza che era fondamentale nella Retorica e che, per una strana aberrazione, è tornata


  1. Quanti spunti di vero e proprio umorismo in Poggio! Basterà ricordare il patto di quel buon’uomo col cantastorie di piazza per differir la morte di Ettore, che tanto lo addolorava; la risposta di quel cardinal di Spagna ai soldati della Santa Sede: «Ancora non ho fame»; la disperazione di quel bandito per la goccia di latte venutagli in gola durante la quaresima, ecc. ecc.