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XII. — Resti mortali. | 139 |
poco, tutti, tranne il cocchiere sul carro funebre, le monache, i chierici e i portatori dei labari e delle bandiere, entrarono nel fresco delizioso dell’ufficio della dogana, ch’era un alto e vasto magazzino ingombro tutt’intorno alle pareti di casse rammontate e di balle e di colli.
Vi rintronavano i gridi della contesa tra i nipoti del morto da una parte, e il capo-stazione e gli ufficiali di dogana dall’altro. Gli animi s’erano accesi. Il capostazione era irremovibile: o pagare la multa, o niente feretro! Il maggiore dei nipoti, furibondo, minacciava che glielo avrebbero lasciato lì. Non era mica merce, un morto, che si potesse rivendere all’asta! Volevano vedere che cosa il capo-stazione se ne farebbe! E il capo-stazione sghignazzava e rispondeva che, chiestane licenza a chi di dovere, lo avrebbe mandato a seppellire con due facchini; e che poi a far pagare le spese e la tariffa e la multa ci avrebbero pensato con comodo gli uscieri. Un fremito d’indignazione accolse questa risposta e allora l’altro nipote, confortato dal consenso di tutti, lo diffidò dal farlo: avrebbero chiamato responsabile l’amministrazione dei danni morali e materiali, perchè non era mica un cane il loro zio da esser mandato a seppellire in quel modo; c’erano là centinaja di persone venute a rendergli i meritati onori funebri, labari e bandiere di sodalizi, un carro di prima classe, un santo sacerdote, monache e chierici con più di quaranta candele!
E i due nipoti, rossi come gamberi, con le camice bianche che, nello scompiglio dell’esagitazione, strabuzzavano loro dalle maniche nere e perfino di sotto al panciotto, tutti tremanti per lo sfogo violento e piangenti dalla rabbia, furono condotti via.