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42 | luigi pirandello |
una mano e si passava l’indice sul nasetto ardito e sospirava.
Era stanca veramente. Avrebbe voluto addormentarsi.
I suoi due bimbi orfani, loro sí, poveri amorini, s’erano addormentati: uno, il maggiore, disteso sul sedile sotto un mantelletto; l’altro qua, rinchioccito, col capino biondo su le gambe di lei.
Chi sa, si sarebbe forse anch’ella addormentata, se avesse potuto in qualche modo appoggiare un gomito o il capo, senza svegliare il piccino, a cui le sue gambe facevano da guanciale.
Il sedile di fronte serbava l’impronta de’ suoi piedini, che vi avevano trovato un comodo sostegno, prima che fosse venuto a prender posto — ce n’erano tante di vetture, nossignori! — proprio lí, un omaccione su i trentacinque anni, barbuto, bruno in viso, ma con occhi chiari, verdastri: due occhi grandi, intenti e tristi.
La signora Lucietta ne aveva provato subito un grande fastidio. Il color chiaro di quei grandi occhi le aveva — chi sa perché — destato confusamente l’idea che il mondo, ovunque ella andasse, le sarebbe rimasto sempre estraneo ormai, e come lontano, lontanissimo e ignoto; e ch’ella vi si sarebbe sperduta, invano chiedendo ajuto, tra tanti occhi che sarebbero rimasti a guardarla, come quelli, con qualche velo di tristezza, sí, ma in fondo indifferenti.
Per non vederli, teneva da un pezzo la faccia voltata verso il finestrino, quantunque di fuori non si scorgesse nulla.
Si vedeva solo, in alto, sospeso nella tenebra, il riflesso preciso della lampada a olio della vettura, con la rossa fiammella fumosa e vacillante, il vetro concavo dello schermo e l’olio caduto, che vi sguazzava. Pareva proprio che ci fosse un’altra lampada di là, la quale seguisse con pena, nella notte, il treno, quasi per dargli insieme conforto e sgomento.
— La fede... — mormorò, a un certo punto, quel signore.
La signora Lucietta si voltò con aria stordita:
— Che cosa?