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la rosa | 43 |
— Quel lume che non c’è.
Ravvivando il sorriso e lo sguardo, la signora Lucietta levò un dito a indicar la lampada nel cielo della vettura.
— Eccolo qua!
Quel signore approvò piú volte col capo, lentamente; poi aggiunse, con un sorriso triste:
— Eh sí, come la fede... Accendiamo noi il lume di qua, nella vita; e lo vediamo anche di là; senza pensare che se si spegne qua, di là non c’è piú lume.
— È filosofo lei! — esclamò la signora Lucietta.
Quegli alzò una mano dal pomo del bastone a un gesto vago e sospirò con un altro sorriso:
— Osservo...
Il treno si fermò per un gran pezzo davanti a una stazionuccia di passaggio. Non s’udiva alcuna voce e, cessato il rumor cadenzato delle ruote, l’attesa in quel silenzio pareva eterna e sbigottiva.
— Mazzàno, — mormorò il signore. — S’aspetta al solito la coincidenza.
Alla fine, giunse da lontano, lamentoso, il fischio del treno in ritardo.
— Eccolo...
Nel lamento di quel treno, che correva nella notte per la stessa via su cui tra poco anche lei sarebbe passata, la signora Lucietta udí per un momento la voce del suo destino, che, sí, proprio, la voleva sperduta nella vita insieme con quelle due creaturine.
Si riscosse dall’angoscia momentanea e domandò al compagno di viaggio:
— Ci vorrà ancor molto a Péola?
— Eh, — rispose quegli, — piú di un’ora... Scende a Péola anche lei?
— Io sí. Sono la nuova telegrafista io. Ho vinto il concorso. Son riuscita la quinta, sa? M’hanno destinata a Péola!
— Ah, guarda... Sí, sí, la aspettavamo difatti per jeri sera.
La signora Lucietta s’animò tutta: