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la rosa | 47 |
II
Tra quell’ampia chiostra di monti azzurrini qua e là spaccata da vaporose vallate, fosche di querci e d’abeti, gaje di castagni, Péola, col suo mucchietto di tetti roggi i suoi quattro campaniletti scuri, le anguste piazzette sbieche e le viuzze scoscese tra case piccole vecchie e case un po’ piú grandi nuove, aveva dunque il privilegio d’ospitare la vedova di quel giornalista Loffredi, della cui tragica morte ancora avvolta nel mistero si seguitava di tanto in tanto a parlare nei giornali delle grandi città. Privilegio non comune, poter sapere dalla viva voce di lei tante cose che gli altri, nelle grandi città, non sapevano; ma anche solamente vederla e poter dire:
— Il Loffredi, vivo, tenne stretta fra le braccia quella cosina lí!
I “civili” di Péola ne erano tutti insuperbiti. Quanto ai cani, credo che in verità avrebbero seguitato a dormire pacificamente sdrajati per le viuzze e le piazzette del paese senza il minimo sentore di quel privilegio non comune, se tutt’a un tratto, essendosi sparsa la voce della cattiva impressione che avevano fatto e facevano col loro sonno continuo alla signora Lucietta la gente, specie i giovinotti, ma anche gli uomini maturi, non si fossero messi a disturbarli, e cacciarli via a calci, o pestando i piedi e battendo le mani, per chiasso.
Le povere bestie si levavano da terra, piú stupite che seccate; guardavano di traverso, alzando appena un’orecchia: poi, alcune, ballonzolando su tre zampe con la quarta aggranchita e rattratta, andavano a sdrajarsi piú là. Ma che cos’era accaduto?
Forse l’avrebbero capito, se fossero stati cani un poco piú intelligenti e meno imbalorditi dal sonno. Bastava, santo Dio, fermarsi un po’ a guardare dalle imboccature della piazzetta ove a nessuno di loro era piú permesso, non che di sdrajarsi, ma neppur di passare di corsa.
C’era in quella piazzetta l’ufficio del telegrafo.
Si sarebbero accorti (se fossero stati cani un poco piú