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X. — In corpore vili. | 127 |
IV.
— Adesso un buon tazzone di brodo per Cosimino! — ordinò verso sera don Ravanà alla serva. — Ci vuoi fettine di pane, di’, Cosimino?
— Sissignore, come dice Lei.... Mi lasci stare.... — fece il povero sagrestano rifinito, pallidissimo, con la testa cascante appoggiata al muro senza neppur forza di fiatare.
— Con fettine di pane! con fettine di pane! e un torlo d’uovo! — aggiunse forte don Ravanà, tutto premuroso. — Di’, ce lo vuoi, è vero, un bel torlo d’uovo, Cosimino?
— Non voglio niente! Mi lasci stare! — gemette questi al colmo dell’esasperazione. — Lei si fa la chiacchieratina, e io ci ho il veleno in corpo per lei! Prima mi rovina lo stomaco, e poi fettine di pane e torlo d’uovo! Sono azioni degne d’un santo sacerdote, codeste? Mi lasci andar via.... Mannaggia, perderei la fede.... Ahi, ahi.... ahi, ahi.... ahi, ahi.... —
E se n’andò con le mani sul ventre, nicchiando così.
— Che brutto viziaccio! — esclamò stizzito don Ravanà. — Prima, tutto mansueto; poi ci ripensa, e diventa una vespa. E dire che gli ho fatto tanto bene, a quel brutto ingrato! —
Stette un po’ a tentennare il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù; poi chiamò:
— Sgriscia! Dammelo a me, il brodo. Ce l’hai messo il torlo d’uovo? Brava. Ora il cappello e il tabarro....
— Esce?
— Eh sì, non lo sai? Mi sento benone, adesso, grazie a Dio. —