Pagina:Poemetti italiani, vol. XI.djvu/166

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S'ingannavan da noi l'ore notturne,
E su i vani timori, onde son l'alme
De' miseri mortali afflitte e dome,
Pietà dal cor, più che da i labbri riso
Si riversava. L'uom cortese a i detti
Tacito pende, e l'uno or guarda or l'altro,
Poi si raccoglie in se, medita, e scorno
Già par che il prema del narrato incanto.

Ma la donzella dal rossor gentile,
Che vide il cenno de la madre, a cui
Gravi reggeansi le palpebre a stento,
S'innalza, e dolce nel partir saluta,
E a me propizio augura il vento. Ed io:
Ben volgon gli anni che il materno letto
Col letto nuzial muti, ed impari
Novelli amplessi, e stile altro di sonni,
E di piume un tepor forse più caro.
E qui la terza volta ella arrossendo
Ratta s'invola; ed un cotal sorriso
Sorrise di piacer la cara Madre,
Ed il passo senil dietro affrettolle.
Ma il Padre: or saper dei che un Garzon vago,
E in sen de le più vaghe Arti nodrito,
Stranier, ma nato in città nostra, tosto
Verranne, e sposa a le paterne case
La condurrà. Basta, diss'io, che alcuna
Non lo vi tolga innamorata Maga.