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della ragione di stato 35


però, ripigliando il filo del primo ragionamento, dico che solamente nelle rette republiche la ragione di stato affatto con le leggi si conforma, e l’una e l’altra d’accordo fanno poi una perfetta armonia insieme con la forma del governo, sendo tutte del pari rivolte al giusto e ali’onesto e mirando ugualmente alla felicitá di chi ubbidisce e di chi commanda. E questo fu che volle dir Plinio il giovane in lode del governo di Traiano, quando egli scrisse: «Fuit tempus, ac nimium diu fiat, quo alia adversa, alla secunda principi et nobis. Nunc communia tibi nobiscum tam laeta quam tristia, nec magís sine te nos esse felices, quam tu sine nobis potes». Ma, perché nelle cose umane non si dá l’intieramente perfetto se non per imaginazione e per desiderio, quel dominio dove non sia gran fatto apparente disonanza tra le leggi e la ragione di stato si doverá sommamente lodare e tenere in pregio. Tale fu Sparta per lungo spazio di anni, e altresí Roma fin alla terza guerra cartaginese. Tale è stata Venezia non pochi secoli, e cosí il regno di Francia e alcuni altri prencipati e republiche d’Europa.

Dubitano alcuni se gli antichi conoscessero la ragione di stato, e nasce la difficoltá principalmente dall’esser nuovo il nome di ragione di stato. Ma chi legge attentamente il quinto della Politica di Aristotele, e principalmente l’undecimo capo, e chi diligentemente esamina le azioni di Filippo Macedone e di Alessandro il figlio, e di Ottavio e di Tiberio, e di cento altri sí fatti, dove si vede al vivo espressa quella ragione di stato, della quale abbiamo oggidí sí fini maestri in Italia e in Ispagna, si accorgerá che ’l dubbio è da fanciulli. Né fa caso che gli antichi non avessero nome proprio da isprimerla, poiché non l’abbiamo ancor noi, e però la circoscriviamo con questi due termini: «ragione di stato», come la circoscrissero eglino con altri, che pur denotavano il medesimo, valendosi quando delle voci «vis dominationis» o «arcana imperii», quando di quel modo di dire «est, vel non est, e republica» (che però s’intende in piú d’un sentimento), e quando d’altri tali. Cosí fecero pur anco i greci, che o denotarono con piú parole quello che non seppero con una sola esprimere, o pur,