Pagina:Pontano - L'Asino e il Caronte, Carabba, 1918.djvu/106

Da Wikisource.

il caronte 99

più grande virtù delle femmine». Questo decreto l’ho sentito leggere io stesso in Atene e in altre assemblee di città greche.

Car. — Eh furon buone ragioni!

Merc. — Inoltre tolsero molto all’autorità di Platone gli scritti posteriori di Aristotele, più acuto del suo maestro, e meno lontano dalle civili consuetudini.

Car. — Difatti i libri di Platone molti li condannano; ma i suoi discepoli sono però assai letti?

Merc. — Perchè no? sono anzi in grande onore, anche presso gli stranieri.

Car. — Quanto ad Aristotile, io quel giorno ero forse stanco e con la mente occupata in altri pensieri. Fatto sta, che, chiedendogli io qualche cosa qui, in questa medesima barca, mi parve nelle sue risposte troppo oscuro e cauto. Figurati che, sebbene parlasse con me dopo essere stato sciolto dai vincoli del corpo — e dunque essendo vivo! anche dopo la morte! — non voleva rispondermi niente di certo riguardo all’immortalità dell’anima!... E io credo che anche oggi, dopo tanti secoli, uno scrittore così acuto e sottile non sia punto facile a capirsi.

Merc. — Vuoi che ti faccia ridere? Voglio dirti, a questo proposito, come argutamente un valente oratore mise in derisione, che non è molto, un filosofuccio teologo che voleva stiracchiare a suo modo le parole di Aristotele. E allora l’altro, rivolgendosi agli uditori: «Non è un filosofo questo, ma un calzolaio; e come questo tira il cuoio e lo spago coi denti, così quello tira le parole d’Aristotele: badi di non rimetterci i denti delle mascelle!» E di qui nacque il detto che «il teologo deve aver buoni denti».

Car. — Si potrebbe dire a sua scusa che, se