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280 viii - da «storia e fantasia»

     Come giá un tempo, salirem gli aprici
nostri colli alle cacce, e fanciulletti
60ci parrá di tornar vispi e felici.
     Che ti dá il mondo, fratel mio? diletti
pochi e noia immortale. In mezzo a noi
tristi hai ricordi, ma securi affetti.
     Pensa che dormon qui l'ossa de’ tuoi,
65che qui regni aspettato e che ogni tetro
affanno tuo qui consolar sol puoi.
     Addio, fratel. Che a me tu pensi impètro;
a me, che sai come t’onoro e t’amo.
Vanne veloce, e non voltarti indietro. —
     70Cosí dicevi; e all’ultimo richiamo
due volte l’orme s’arrestâr, due volte
chiusi all’amplesso del dolor ci siamo.
     Indi la fuga d’ambidue le folte
ombre han coperto. Ahi, fratel mio! Disgiunto
75perché ti sei dalle mie braccia? o stolte
     perché le braccia mie ti hanno in quel punto
abbandonato? Ove sei tu? Non tôrmi
di speme; ah! parla; tu non sei defunto.
     Parla: che indugi? È dunque ver. Tu dormi
80il tuo sonno final. Ché non m’è dato
nel gel dell’urna a te d’accanto pormi!
     Esecrata la iniqua alba, esecrato
lo iniquo sol che t’avvampò nell'ossa,
e il giorno e l’ora, che il desio t’è nato
     85di lanciarti alla preda, onde la possa
del cor si ruppe e rimanesti ucciso,
ed or ti pesta il cavriol la fossa!
     E ancor sembrami un sogno. Ove il tuo viso
bruno e selvaggio? ove la forte chioma?
90e l’occhio ingenuo? e, come l’occhio, il riso?
     e quel ferreo vigor che nessun doma?
e quella voce?... Ahi! gemo indarno. Eppure
di me chi meglio al mio dolor ti noma?