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canto sesto. 103

9 Rinaldo quando vide la donzella,
     Tentato fu di farla alla franciosa2;
     A Ulivieri in sua lingua favella:
     Quant’io non vidi mai più degna cosa.
     Disse Ulivieri: E’ non è in cielo stella,
     Ch’appetto a lei non fussi tenebrosa.
     Rinaldo presto rispose: Io t’ho inteso,
     Che ’l vecchio foco è spento, e ’l nuovo acceso.

10 Non chiamerai più forse, come prima,
     La notte sempre e ’l giorno Forisena,
     Ch’ad ogni passo ne cantavi in rima:
     Non sente al capo duol chi ha maggior pena;
     Veggo che del tuo amor l’hai posta in cima,
     E se’ legato già d’altra catena.
     Ulivier disse: S’io vivessi sempre,
     Convien sol Forisena il mio cor tempre.

11 Eron3 saliti già tutta la scala,
     E grande onor da quella ricevuto;
     Che insino a mezzo gli scaglion giù cala,
     E rendutogli un grato e bel saluto:
     Intanto Caradoro in su la sala
     Con tutti i suoi baroni era venuto:
     Rinaldo e gli altri baciaron la mano,
     Come è usanza a ogni re pagano.

12 Fece ordinar di subito vivande,
     E’ lor destrier fornir di strame e biada;
     Per la città la lor fama si spande,
     E per vedergli assai par che vi vada:
     Venne la cena, e fuvvi altro che ghiande.
     Ulivier pure alla donzella bada;
     Poi che cenato fu, re Caradoro
     In questo modo a dir cominciò loro:

13 Io vi dirò, famosi cavalieri,
     Quel che ’l mio cor da voi desia e brama:
     Per tutt’i nostri paesi e sentieri
     Dell’oriente risuona la fama
     Di vostra forza, e de’ vostri destrieri,
     E questa è la cagion che qua vi chiama.
     Come vedete, ogni campagna è piena
     Di gente qua per darci affanno e pena.