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canto decimoprimo. 235

84 Avino era venuto, per vedere
     Quel che veder non vorrebbe per certo;
     Ma ’l grande amor lo sforza, e più tenere
     Non potè il pianto, tanto avea sofferto.
     Guardava Astolfo contr’al suo volere
     Le forche in alto, e ’l camin gli pare erto,
     E quanto può di non salir s’attiene,
     Chè di morir non s’accordava bene.

85 I Maganzesi gli sputan nel viso,
     Come facieno a Cristo i Farisei;
     Diceva alcun con iscorno e con riso:
     Or fien puniti i tuoi peccati rei,
     Ricordati di me su in paradiso.
     Altri dicea, come ferno i Giudei,
     Mentre ch’ognun quanto può lo percuote:
     Dimmi stu sai chi ti batte le gote!

86 Tu il doverresti saper, paladino,
     Tu doverresti conoscer la mano,
     Se se’ profeta, astrolago o indovino:
     Che guati tu? del senator romano,
     O che ti scampi il figliuol di Pipino?
     Ch’aspetti tu? Il signor di Montalbano?
     Ne verrà a te, quando a’ Giudei il Messia;
     Ed anco Cristo chiamò in croce Elia.

87 Era a vedere Astolfo cosa oscura;
     Il manigoldo tirava il capresto,
     Dicendo: Vien su con buona ventura.
     E ’l traditor di Gan dicea: Fa presto.
     Astolfo avea della morte paura,
     Perchè ha diciotto in volta, e vanne il resto;
     E tuttavia di soccorso pur guarda,
     E quanto più potea di salir tarda.

88 Con le ginocchia alla scala s’appicca,
     E ’l manigoldo gli dava una scossa;
     Chi qualche dardo alle gambe gli ficca;
     Ma sosteneva in pace ogni percossa:
     Malvolentier dagli scaglion si spicca;
     E cigolar si sentian prima l’ossa:
     Pur per la forza di sopra e di sotto
     Sopra il terzo scaglion l’avean condotto.