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canto decimosesto. 337

62 Ulivier non rispose nulla a questo,
     E diecimila a cavallo ordinorno:
     L’altra mattina ognun s’armava presto:
     Verso dell’oste del Soldan n’andorno:
     Così Rinaldo sanza esser richiesto;
     E disse al conte: Sonerai tu il corno,
     Chè sai che poco il sonarlo è mia arte,
     E chiama al campo Antea dalla mia parte.

63 Ah, disse Orlando, tu non di’ da vero,
     Io lo farò come persona sciocca,
     Chè di piacerti ho troppo desidero;
     E l’elefante12 si poneva a bocca,
     E sonò tanto forte e tanto altero,
     Che come il suon del corno fuori scocca,
     Subito venne agli orecchi d’Antea,
     Che fra se stessa gran dolor n’avea.

64 Dicendo: Io ho qui perduta ogni fama:
     Parrà che per viltà nel padiglione
     Mi stessi addormentata; e l’arme chiama,
     E finalmente saltò in sull’arcione.
     Quando Rinaldo scorgeva la dama,
     Par che sia tratto il cappello al falcone;
     E tutto si rassetta in sulla sella,
     E in qua e in là con Baiardo saltella.

65 Giunta costei, con un gentil saluto
     Lo salutò, che in mezzo il cor gli passa;
     Poi fece con Orlando il suo dovuto;
     Orlando per dolor giù gli occhi abbassa.
     Disse la dama: E’ vi sarà paruto
     Ch’io sia molto per certo pigra e lassa,
     Chè sto nel letto, e voi siete a aspettarmi;
     Veggo che l’arte è pur vostra dell’armi.

66 Prendi del campo tu, Rinaldo mio,
     Chè so che tu m’aspetti alla battaglia,
     E ciò ch’io ti promissi pel mio Dio
     Osserverotti, sanza mancar maglia.
     Dicea Rinaldo: A combatter vengh’io,
     Ma vorrei far con arme che non taglia:
     Volse il cavallo, e così la fanciulla:
     Disse Ulivieri: E’ non ne sarà nulla.